Definizione del Verdicchio marchigiano, vino eclettico e di facile abbinamento: “il rosso vestito di bianco”.
Lo ha scritto nei giorni scorsi Roberto Fiori su La Stampa, in una meritata celebrazione (non online) dell’oro di Jesi e Matelica –le due Doc divise tra le provincie di Jesi e Macerata, che deve il suo nome al colore degli acini, ancora verdi in piena maturazione.
Oggi, nell’anconetano, eccellenti vigneron coltivano 230 ettari in 8 comuni (Verdicchio di Matelica) la cui altitudine conferisce al vino maggiore mineralità, e 2190 ettari sparsi in 25 comuni (Verdicchio dei Castelli di Jesi), che fanno un vino, detto con le parole de La Stampa: “dal gusto secco, fresco e morbido, conosciuto nel mondo per la sua personalità”.
Del resto ci sarà un motivo se nel decennio 2007-2017 l’agroalimentare delle Marche è cresciuto del 56%, con il vino a fare da traino specie nell’export, che l’anno scorso ha superato la bella quota di 52 milioni di euro.
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E se vino & cucina sono sempre più un binomio decisivo per il turismo, il dato è che il 52% dei turisti italiani identifica nella produzione enogastronomica marchigiana uno dei maggiori punti di attrazione della regione, con un impatto economico pari a 355 milioni di euro.
Va da sé che il Verdicchio dei Castelli di Jesi è il prodotto trainante per conoscenza del vitigno, nonché il bianco più esportato.
Ma i primati del Verdicchio non sono solo questi: miglior vino bianco fermo d’Italia secondo le principali guide enologiche per il quarto anno consecutivo, con ben 255 etichette –numero che da solo testimonia il fermento imprenditoriale marchigiano– ai massimi punteggi.
Ma come si raggiungono questi risultati?
Nelle Marche hanno scommesso sulla reale personalità del vitigno, superando l’immagine sgualcita e riduttiva del vino beverino maturata negli anni delle bottiglie a forma di anfora. È venuto fuori un prodotto di grande struttura che ha una capacità d’invecchiamento sorprendente, ma è anche duttile: provare per credere le infinite varianti, dalle bollicine al passito.
Altro fattore importante: le differenze tra le due denominazioni sono chiare e percepibili: Verdicchio di Matelica legato ai pendii a strapiombo, quasi di montagna, Verdicchio dei Castelli di Jesi legata al mare e alle dolci colline. Come già Nebbiolo, Riesling o Pinot Nero, il Verdicchio ha doti straordinarie nel tradurre il territorio.
3 Bottiglie d’autore
La Stampa ha anche chiesto a tre chef stellati marchigiani altrettante bottiglie d’autore, da abbinare a un piatto dei loro ristoranti. Di seguito le risposte.
Moreno Cedroni | Villa Bucci Riserva 2009
Lo chef de La Madonnina del Pescatore di Senigallia, due stelle Michelin, propone un Verdicchio “che ha fatto il passo lungo dei grandi bianchi francesi. Minerale, fresco, si abbina bene a un piatto che ho messo in carta: King Crab, cavolo cappuccio marinato nel misto, cavolo cappuccio marinato nel miso, salsa di zucca gialla e cavolfiore fermentato”.
Mauro Uliassi | Sartarelli Balciana 1997
Spiega lo chef 2 stelle Michelin “Scelgo il Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore Balciana 1997 di Sartarelli. È stato dichiarato il miglior bianco del mondo dalla giuria dell’International Wind Challenge di Londra, si sposa con il nostro spaghetto affumicato con vongole e datterini arrosto.
Enrico Recanati | Venturi Kudi 2010
Lo chef del ristorante Andreina di Loreto, una stella Michelin, suggerisce “il Verdicchio dei Castelli Classico Superiore Qudi 2010 di Roberto Venturi. Un vino che nasce tra il mare e gli Appennini, lo abbinerei a una faraona cotta da lontano servita con radici amare e estratto di salvia.
[Crediti | La Stampa]