Tra un litigio e l’altro sullo loro definizione, i loro confini e le loro caratteristiche, i vini naturali stanno conquistando uno spazio sempre più rilevante.
Il caos però regna sovrano e la patente di vinnaturista, soggetta a troppe retoriche e opinioni, finisce per inglobare vini biologici, biodinamici, liberi, carini, simpatici, artigianali, contadini, resistenti e bla bla bla.
Proviamo allora a mettere un po’ d’ordine con “Naturale italiano” nuova serie di Dissapore, con episodi a carattere regionale, partendo dal Trentino Aldo Adige per ricordare i primi innovatori, le cantine apprezzate anche fuori dal caldo abbraccio della nicchia e le nuove leve.
Fatemi aggiungere alla premessa generale una nota regionale. Se esiste uno stereotipo gustativo dei vini naturali ne esiste anche uno dei vini trentini convenzionali, soprattutto di quelli altoatesini, la cui chirurgica precisione e la raffinatezza enologica è apparentemente l’antitesi della scapigliatura espressiva di molti vini naturali.
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È forse per questo che la sintesi trova un buon equilibrio? Probabile. Di certo se siete a una fiera di naturali e cominciate ad accusare la stanchezza per alcuni eccessi, se rintracciate un produttore trentino e/o suditorolese potrebbe essere una strategia per tornare a sensazioni più concilianti.
FORADORI
Siamo a metà anni ’80 quando una donna caparbia, capace e affascinante muove i suoi primi passi tra le vigne in mezzo alle montagne e alle rocce di Mezzolombardo e cambia la storia del Teroldego, un vitigno generoso e versatile, da sempre considerato di grana grossa. Parliamo di Elisabetta Foradori, che dopo l’esperienza in vigna con il padre, sente il desiderio di dare un cambio di marcia alla produzione della cantina di famiglia.
L’approccio è visionario: Elisabetta pensa fuori dalle righe, parla di biodiversità, vuole ridare dignità alle varietà locali e sceglie la colitvazione biodinamica. A beneficiarne sono la Nosiola, il Pinot Grigio e l’Incrocio Manzoni, ma sono, appunto, i suoi Teroldego, specie il Granato, a raccontare una storia davvero nuova: un rosso vitale, gustoso, energico, longevo, profondo.
Me ne invaghisco una decina abbondante di anni fa senza però diventarne mai un consumatore costante, ma non c’è fiera dove non vado ad assaggiare i suoi vini.
Nello schizofrenico mondo del vino naturale dei nostri giorni il suo nome smuove meno il dibattito e le iperboli qualitative, alcuni si dicono meno affascinati dai suoi vini, altri ne parlano conoscendoli forse troppo ben poco. Di certo è impossibile non partire da qui per raccontare questo universo e le sue sfaccettature.
EUGENIO ROSI
Rimaniamo in Trentino, a Calliano, con un altro produttore scoperto e amato alle mie prime fiere naturali. La prima cosa a colpirmi dell’azienda furono i nomi delle bottiglie (Esegesi, Poiema, Anisos).
La seconda fu la sensibilità e cortesia del titolare, molto lontana dalla frequente arroganza o l’attitudine messianica che sta cominciando a governare il movimento negli ultimi anni. Eugenio ascolta e racconta, spiega e risponde a ogni domanda senza dare mai l’idea di essere sceso dal cielo per illuminarti con i suoi vini.
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La sua storia è profondamente trentina: studio e fatica caratterizzano il suo percorso, nessuna improvvisazione. Praticamente nato tra le vigne, appena laureato inizia a lavorare come enologo nelle cantine sociali della Vallagarina. A fine anni ’90 decide di mettersi in gioco e punta soprattutto sui rossi, sul Cabernet Franc in primis e l’autoctono Marzemino.
La sua Esegesi (taglio bordolese di Cabernet Franc e Merlot) rimane un gioiellino di eleganza ed espressività, mentre ho uno storico meno approfondito dei suoi bianchi (Nosiola e Chardonnay). Li ho sempre apprezzati, eppure nel marasma successivo di nuove scoperte me lo sono un po’ perso per strada. Rimedierò.
HADERBURG
Andiamo in Alto Adige, a Salorno, ma non per celebrare il trionfo dei tanto osannati bianchi aromatici e semiaromatici che hanno creato un gusto commercialmente dominante (dicono femminile), quanto per raccontare le affilatissime bolle di Haderburg.
A metà anni ’70 una vecchia azienda specializzata in uva e mele decise di fare il salto nella produzione di vino. Doppiamente coraggiosa fu l’idea di dedicarsi allo spumante grazie alle vigne di Chardonnay, successivamente coltivate, come tutta la produzione, in regime biodinamico.
Dieci anni fa il primo febbrile wine blogging e un certo conseguente passaparola contribuiscono al successo del loro brut e soprattutto del pas dosè. Siamo agli albori del feticismo per i metodo classico non dosati, non torneremo più indietro.
Una bolla dura e verticale, di grande carattere e finezza, la bottiglia da comprare alla fine di ogni Merano Wine Festival quando si è stanchi dai troppi assaggi seriosi fatti. Alcuni ne lamentano alcune sbavature olfattive. Devo essere stato fortunato io a non ricordare mai vini sporchi, ma sempre molto espressivi.
Ovviamente Haderburg produce anche tanti vini fermi. Il numero di etichette è numerose e confesso di non aver mai provato (o aver rimosso dalla memoria) i loro Riesling e il Pinot nero, ma la visita vale la trasferta.
PRANZEGG
Tra i più chiacchierati produttori della nuova generazione, il bolzanese Martin Gojer è stato capace di conquistarsi uno spazio di mercato grazie a una serie di vini dalla grande purezza espressiva.
Siamo in un antico maso a Campiglio, dove Gojer nel 1997 rileva l’azienda di famiglia e ne cambia i connotati. Qualche anno di gavetta, numerose vendemmie come conferitore per le cooperative di zona, prima di cominicare a imbottigliare i propri vini nel 2010.
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Qui vi concedete soprattutto un assaggio di rossi con delle versioni solari ed energiche gli autoctoni Schiava e Lagrein, coltivati in biodinamica. La Schiava, da vigne vecchissime all’imbocco della Valle Isarco, soprattutto riconcilia con un vitigno storico che, dopo aver passato un paio di decenni di decadimento, ha cominciato a rifare sentire la sua voce sottile ed elegante.