I vini rosati piacciono. Finalmente. Ora bere rosa è trendy. Secondo l’Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino (OIV) il consumo di vino rosato è in crescita dall’1% al 2% all’anno.
I più accaniti bevitori sono i francesi che da soli ingurgitano il 34% della produzione mondiale di rosato. A seguirli a grande distanza gli americani (14%), poi i tedeschi (8%) e gli inglesi (6%). L’Italia, con un 4% del consumo di rosati, si piazza solo al quinto posto, ma con buone prospettive di crescita nei prossimi anni.
Solo poco tempo fa era vero il contrario. I rosati erano vini di nicchia, poco apprezzati e ancor meno compresi, soprattutto dai consumatori maschi.
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Il motivo principale per questo rifiuto stava probabilmente nel forte valore simbolico del colore rosa, che veniva associato al mondo femminile. Dai fiocchi di nascita alle porte fino ai vestiti per i neonati, il rosa comunicava prontamente la sfera femminile.
Non da sempre però. Ricordate solo l’abito rosa di Jay Gatsby, il protagonista del romanzo di F. Scott Fitzgerald o la famosa Cadillac Fleetwood di Elvis Presley, tinta dello stesso colore.
Niente di strano quindi se in Italia il rosato nasce proprio come vino da super testosterone. Siamo nel 1943 quando Leone De Castris vende la sua prima annata di “Five Roses” alle truppe americane. Il primo rosato italiano imbottigliato, e ancor oggi tra i migliori della categoria, era un vero vino da maschi.
Allora perché questa lunga noncuranza verso i rosati?
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Per capirlo si deve tornare ai primi anni del dopoguerra. Sembra che la genderizzazione del colore rosa sia iniziata proprio lì, negli anni Cinquanta, e che abbia le sue radici nelle strategie commerciali dell’industria americana d’abbigliamento dell’infanzia.
Nel paese a stelle e strisce si cercava infatti un mezzo efficace per contrastare l’abitudine delle giovani famiglie di passare i vestiti dei figli più grandi a quelli nati dopo. Lo stratagemma era semplice. Una volta abituati ad associare il colore rosa al mondo delle bambine e l’azzurro a quello dei maschietti, i genitori avrebbero abbandonato questa consuetudine, così dannosa per gli affari, nel momento in cui nasceva un secondogenito di sesso diverso.
Vi ho raccontato tutta questa storia perché ha avuto delle conseguenze culturali enormi di cui anche il consumo dei rosati ne ha risentito.
Rimane comunque un fattore intrinseco, cioè il carattere stesso dei vini rosati che determina la loro difficoltà di affermarsi sul mercato. Per loro natura i rosati sono vini ambigui. Con una veste e un gusto sospeso a metà tra i bianchi e i rossi, a molti sembrano un po tutti e due o ancor peggio né carne né pesce.
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Da lì, fra l’altro, l’errore madornale di credere che i rosati siano l’abbinamento giusto quando a tavola uno sceglie il pesce e l’altro la carne. Vini da compromesso insomma.
Inoltre non va sottovalutato il fatto che molti rosati venivano prodotti con il metodo del salasso, cioè prelevando una parte del mosto durante la prima fase della vinificazione in rosso con lo scopo di concentrare il mosto restante mentre la parte sottratta veniva poi vinificata in bianco. Questa pratica, di per sé del tutto normale, dava comunque l’idea che il rosato così ottenuto fosse un vino secondario.
Comunque sia, in passato pochi avevano dubbi sul fatto che un rosato non fosse una cosa seria. Tutt’al più poteva passare come aperitivo o bevanda decorativa a bordo piscina. Niente di più.
I due stili dei rosati
Togliendo le etichette da pochi euro che popolano gli scaffali bassi della grande distribuzione, e quelli che cercano di sedurci con profumi fruttati semplici e un residuo zuccherino del tipo voglio-piacere-a-tutti, i rosati si possono dividere in due categorie.
La prima è caratterizzata da uno stile che punta sulla piacevolezza olfattiva e una grande bevibilità. Vini con profumi intensi, allegramente improntati su frutti rossi e qualche fiore, di buona freschezza e sapidità e spesso con un grado alcolico relativamente basso. Vini leggeri, sì, ma non per questo meno apprezzabili.
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La seconda categoria di rosati invece va oltre. Caratterizzati da sentori soavi ed eleganti che spesso includono anche spezie o erbe aromatiche si collocano al di là del binomio frutti e fiori rossi. Un estratto più deciso e la capacità di lasciare un ricordo gusto-olfattivo più lungo fanno di questi prodotti i candidati giusti per accompagnare piacevolmente una cena.
Certo, la realtà qualche volta si ostina a non essere ricondotta a categorie distinte. Bevibilità ed eleganza possono senz’altro caratterizzare lo stesso identico vino. Ne è un esempio la prima bottiglia che vi presento.
Costaripa, RosaMara, Valtènesi Chiaretto DOC 2017
La Costaripa si trova a Moniga del Garda, a metà strada tra Desenzano del Garda e Salò. Siamo nel cuore del Valtènesi. Mattia Vezzola, titolare dell’azienda e collezionista di titoli come miglior enologo dell’anno, ha portato il buon nome di questa piccola zona vinicola in tutto il mondo.
Assaggiando il suo RosaMara si capisce perché. Ottenuto da un 50% di Groppello Gentile, da 30 % di Marzemino e un restante 20% di Sangiovese e Barbera in parti uguali, la metà del mosto fermenta e rimane poi per sei mesi in vecchie botti di rovere bianco da 228 litri mentre la parte restante fa solo acciaio.
Il colore ricorda una perla di acqua dolce di tonalità rosa pesca. Emana intensi profumi di ribes, amarena e melograno. Una buona freschezza ed eccellente sapidità gli conferiscono grande bevibilità. Sul finale ritornano aromi di amarena. Alla faccia delle classificazioni: eleganza e bevibilità in un connubio perfetto.
Costaripa, Molmenti, Valtenesì Chiaretto DOC 2013
Annata 2013. Sì, avete letto bene. Il Molmenti è la prova che non tutti i rosati vanno bevuti nell’arco di un paio d’anni. L’uvaggio è pressoché identico al RosaMara. Aumenta solo la percentuale del Groppello che sale a 60% a sfavore del Marzemino. La vera differenza però sta nella vinificazione di tutto il mosto in vecchi tonneaux di rovere bianco da 400 litri dove il vino rimane poi per due anni, seguiti da altri due in bottiglia.
Il colore rosa chiaretto con riflessi ramati annuncia che ci troviamo davanti a un prodotto fuori dai canoni, impressione prontamente confermata al naso da intensi profumi di rosa, lamponi, accenni di tabacco dolce e basilico. In bocca dimostra buona freschezza ma la scena viene piacevolmente dominata dalla generosa sapidità. Chiude con un leggero sapore di basilico davvero raffinato. Unico ed irresistibile.
Casa di Terra, Allegra, IGT Toscana 2017
Un rosato di Bolgheri. Non è una cosa strana. Anzi, il rosato è la storica tipologia della zona tra il viale dei Cipressi e il borgo di Castagneto Carducci. Prima che una forte innovazione enologica la rendesse celebre per la sua produzione di grandi vini rossi, questa terra era infatti conosciuta per i suoi rosati.
L’azienda si trova nel bel mezzo dei vigneti più famosi, tra la via bolgherese e l’Aurelia. L’uva proviene da vigne giovani, impiantate tra il 2007 e il 2014. Questo rosato, ottenuto da Merlot e Syrah in parti uguali, viene vinificato in acciaio.
Allegra. Nome più che azzeccato per questo rosé. Tinto da un color rosa corallo incanta l’olfatto con profumi di frutti di bosco, fragole e rosa canina a cui seguono note ferrose. In bocca è armonico e sapido. Rimedio infallibile contro ogni pensiero negativo. Bravi.
Fattoria Sardi, Le Cicale IGT Toscana 2017
La fattoria Sardi si trova a pochi chilometri a nord di Lucca. Membro della rete ‘LuccaBiodinamica’, l’azienda viene gestita da Matteo Giustiniani e sua moglie Mina, tutti e due enologi.
Dei due rosati che producono vi propongo Le Cicale, ottenuto da 60% di Sangiovese e 40% di Vermentino. La fermentazione e l’affinamento si svolgono in barriques e tonneaux francesi di cui solo il 10% sono nuovi.
Il vino presenta un colore che vira da un rosa salmone alla buccia di cipolla. Al naso sfodera un ventaglio di profumi chiari ma non gridati che ricordano lamponi, fragoline di bosco e rose selvatiche, accompagnati da leggeri accenni di legni pregiati.
È un vino fresco, verticale, di elegante sapidità. Da bere adesso ma probabilmente, tra un paio di anni sarà ancora più intrigante.
Cantine San Marzano, Tramari, Salento IGP 2017
San Marzano, è un comune arbëreshë tra Lecce e Taranto. Qui, nel 1962, diciannove vignaioli si mettono insieme per produrre vino. Oggi l’azienda conta oltre 12000 viticoltori e produce ben 10.000.000 di bottiglie all’anno.
Che nel mondo del vino i grandi numeri non sempre vanno a discapito della qualità lo dimostra già il loro ‘Sessantanni’, ottenuto da sole uve Primitivo. Dallo stesso vitigno producono anche il ‘Tramari’ che si veste di un bel rosa tenue e rallegra le narici con sentori di lamponi, resine di macchia mediterranea e zagara. In bocca è molto verticale con un finale che sa di tarocco. Trasmettere più mediterraneità di così non si può.
Cataldi Madonna, Piè delle Vigne, Cerasuolo d’Abruzzo DOC 2015
L’azienda di Luigi Cataldi Madonna si trova ad Ofena, piccolissimo paese tra Chieti e L’Aquila, in mezzo ad un’altopiano, carinamente chiamato il “Forno d’Abruzzo”. Se non fosse per l’effetto rinfrescante del Calderone, il ghiacciaio che rinfresca l’aria dell’intera zona, qui la viticoltura di qualità si troverebbe parecchio in difficoltà.
Il Cerasuolo d’Abruzzo, è un rosato nato solo pochi anni fa. Certo, esisteva già come tipologia del Montepulciano d’Abruzzo DOC, ma solo nel 2010 si è emancipato dal più noto fratello con una propria DOC.
Il Piè delle Vigne dimostra un vivace color rosso ciliegia, esattamente il significato della parola abruzzese “cirasce” da cui deriva il nome della denominazione.
Al naso sprigiona intensi profumi di confettura di amarena, di mandorla dolce e accenni di torba. L’alcol si fa notare in questo vino che riscalda notevolmente il palato ma grazie ad una buona acidità non sconfina. Un rosato certamente sui generis che può essere abbinato a molti piatti di carne. Per esempio gli arrosticini a base di carne ovina. Una pietanza molto territoriale come lo è questo vino.