C’è chi associa ogni vino a uno specifico bicchiere. E c’è chi beve rossi strutturati del contadino nel bicchiere di plastica, magari sotto il sole, mentre griglia qualche salsiccia.
C’è chi sceglie un buon bicchiere, versatile e a buon mercato per tutti i vini (io) e chi beve gli spumanti nelle dannate flûte, dove è “tanto bello” vedere le bollicine svilupparsi quanto ostico sentirne gli odori.
C’è poi chi beve tutto nell’elegantissimo e super leggero Zalto da vino bianco, ma probabilmente non ha figli in casa o possiede la carta platinum per non tirare giù il rosario ogni volta che se ne rompe uno.
C’è infine chi è ossessionato dai materiali, i detersivi e le temperature con cui vengono lavati e chi è troppo pigro per averne cura (ancora io) e finisce per farli rovinare dal calcare non asciugandoli bene.
[Sapete scegliere il bicchiere giusto per ogni bevanda?]
I bicchieri dividono, insomma. Ne ho avuta una dimostrazione estrema visitando alcune cantine in Champagne che magari condividono scelte agronomiche, enologiche e produttive, prima di calarsi le braghe di fronte ai bicchieri da degustazione.
Capita infatti di mortificare grandi bevute in bicchieri raccapriccianti tipo le mini flûte pesanti e senza stelo che albergano in qualche vecchia credenza dei vostri nonni o nei ristoranti più immodificabili.
Come sempre, tra i due estremi –il professionismo vagamente mortificante del sommelier più severo e il qualunquismo della bevuta triviale che “tanto voi fissati col vino le sparate grosse e non sentite mica quegli odori quando assaggiate”– ci rimette il buon senso.
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E la scienza soffre. Sì, la scienza, perché lo studio della forma e dei materiali dei bicchieri è un affare serio che condiziona mica poco la percezione di quello che bevete.
Ne ho avuto ennesima conferma durante la degustazione milanese organizzata da Riedel, la cristalleria austriaca che dubito io debba descrivere ulteriormente considerando la sua fama nel settore.
Se immaginare una forma specifica per ogni varietà, o almeno per quelle principali, può sembrare eccessivo, i risultati sono evidenti, non solo per quanto riguarda le percezioni olfattive ma anche per quelle degustative.
Insomma, un vino odora e sa di qualcosa diverso.
Questo perché la scelta della forma dei bicchieri non è legata a qualche esoterismo estetico o a formule di design, ma alla valorizzazione del suo contenuto. Il modo in cui un liquido entra in bocca è determinante per valorizzare le dolcezze, piuttosto che le sapidità o le astringenze.
Ma non vi ammorberei sui ricettori che abbiamo sulla lingua.
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Questo non significa che la vostra casa debba per forza essere disseminata dai bicchieri, ma se siete degli amanti del vino e vi comprate un grande pinot nero spendendoci parecchi soldi non sarebbe una cattiva idea berlo nel bicchiere corretto.
Facciamo qualche esempio
Bianco di media struttura, con affinamento in legno grande
In un impeto nazionalista Riedel ha messo in degustazione un Gruner Veltiner 2015 di Domaine Wachau. Il vitigno è tipico dell’Austria, viene considerato un cugino minore del Riesling, non è molto noto dalle nostre parti, ma è decisamente interessante.
Provato in uno sperimentale bicchiere da Riesling, progettato per amplificare al massimo le sensazioni olfattive, il vino è un tripudio di frutta matura, albicocca in particolare, ma anche cera e nocciola. La bocca, coerentemente con il naso, appare dolce e setosa. Un vino piacione, all’inizio del suo percorso.
Provato in un bicchiere più largo e meno affusolato, pensato per gli Chardonnay affinati in legno piccolo, il vino ha perso quasi tutta la complessità del naso, banalizzata da uno spunto alcolico molto presente. La bocca invece è molto più sapida. La differenza è così evidente che non credo si possa ascrivere solo a un palato allenato.
Bianco di grande struttura, con affinamento in legno piccolo
Il modello stilistico è quello degli Chardonnay di Borgogna, ma nella degustazione è stata omaggiata l’Italia con lo Chardonnay 2016 di Planeta. Curiosamente avevo provato il vino un mese fa a Sicilia en Primeur trovando ancora piccole e interessanti differenze.
Ovviamente l’equazione precedente si inverte. Il bianco siciliano esprime tutto il suo carattere nel bicchiere da Chardonnay che esalta la tostatura della barrique. Non amando particolarmente gli aromi dolci del legno, non mi esalto per il risultato, ma la differenza è davvero netta.
Alto Adige Pinot nero 2014 Lageder
Anche qui è stato scelto un nostro vino che guarda all’inarrivabile tradizione della Borgogna. Complice l’annata fresca e la mano felice del produttore siamo tra le migliori bevute di pinot nero italiano. La prova è su 3 bicchieri.
Il bicchiere da pinot nero, appunto, ne vuole esaltare l’eleganza. Olfattivamente non c’è storia, il frutto rosso domina, mentre in bocca, la forma costruita per far fuoriuscire il vino sulla punta della lingua esalta la dolcezza che personalmente non è la prima cosa che vado a cercare in un vino del genere.
Il bicchiere da Cabernet/Merlot invece fa discreti danni. Incredibilmente il naso finisce per assomigliare ai vitigni di solito ospitati da questi bicchieri, quindi addio fragole e vai di erbaceo. La bocca è molto più tannica.
Alla cieca sfido a indovinare il vitigno.
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Interessante l’equilibrio del bicchiere pensato per il Syrah, il mio favorito, nonostante non sia il più indicato. Il naso assume connotazioni molto più iodate (marine se preferite) e la bocca maggiore tensione e freschezza. Se dovessi scegliere un bicchiere e usarlo per una gamma molto ampia di rossi starei su questo.
Champagne: grande è bello
Ne abbiamo già parlato: in Champagne il bicchiere, fa ancora di più, tutta la differenza del mondo. Tanto da essere riuscito ad apprezzare anche il Brut Rosé Impérial di Moët & Chandon, sul mio personale cartellino una delle bolle meno piacevoli in assoluto.
Il bicchiere largo per lo Champagne valorizza in generale qualsiasi spumante metodo classico, ma è in quello da Pinot nero (che è l’uva che compone la bolla di Chandon) che si esprime al massimo.