È notizia di questi giorni la spaccatura fra alcuni produttori di Prosecco della zona di Conegliano Valdobbiadene, l’areale più vocato per la produzione della bollicina italiana più famosa al mondo, e il Consorzio di tutela del Conegliano Valdobbiadene Prosecco DOCG. I 230 vignaioli ‘ribelli’, fra gli oltre 3000 totali che operano nei 15 comuni della denominazione, hanno dichiarato lo scorso 2 settembre in una conferenza stampa il proposito di costituirsi in un comitato autonomo, in aperto contrasto con il Consorzio presieduto da Elvira Bortolomiol.
Le motivazioni? Far sì che tutto il vino Prosecco prodotto nel territorio della DOCG Conegliano Valdobbiadene Prosecco venga etichettato solo come DOCG, senza volteggiare nelle più larghe concessioni agronomiche ed enologiche concesse dal disciplinare del Prosecco DOC, farmacologicamente parlando il generico (stando alle cifre fornite, nel Consiglio della DOCG 13 produttori su 15 attualmente producono in percentuale più Prosecco DOC che Prosecco DOCG). Inoltre, essi hanno battagliato sul fatto che la cartellonistica turistica installata sul territorio indichi un generico “colline del Prosecco“, senza alcun riferimento alla denominazione Conegliano Valdobbiadene, notificandolo come un grave danno d’immagine.
I numeri del Prosecco DOC
Ciò può sembrare una baruffa da due lire; vale la pena, dunque, di snocciolare qualche numero: gli ettari vitati censiti per la produzione di Prosecco DOC sfiorano i 30.000 (per amor di confronto, il comune di Milano ricopre un’area di 18.176 ha), con un volume produttivo che ha raggiunto nel 2021 i 4,8 milioni di ettolitri (627 milioni di bottiglie) e un export, vera carta vincente del sistema Prosecco, che ha registrato 274 milioni di litri spediti oltre confine. “Numeri che fan girar la testa” direbbe l’ingegner Cane.
Ricordiamo anche che il Prosecco DOC (ripetiamo: DOC; colui il quale fino al 2009 era classificato come IGT) può essere prodotto in tutto il territorio del Friuli e del Veneto, escluse le province di Rovigo e Verona. Già, quasi due regioni intere. Siamo molto lontani dalla parcellizzazione territoriale della Borgogna. Il perché si sia arrivati a tanto territorio risiede nella volontà di collegare la provincia di Treviso, zona d’elezione del vino in questione, al quartiere di Trieste dove il vino ha visto i suoi storici natali: Prosecco, per l’appunto; questo era anche il nome dell’uva stessa ma, con un altra mossa da abili strateghi, fu destinato alla sola denominazione d’origine, lasciando all’uva maggioritaria del blend come unico nome quello di “glera“. Prima potevi fare uno spumante Prosecco ovunque in Italia (era il nome dell’uva), oggi no. Certo, ogni tanto qualcuno tenta la sorte e sfida la legge, come i croati o gli australiani, ma fanno più tenerezza che altro.
La realtà della DOCG
Si riesce dunque a mettere a fuoco l’astio dei viticoltori insorti: 30mila ettari spalmati su due regioni non depongono a favore del racconto di una territorialità del Prosecco, mentre con i 7.549 ettari vitati della DOCG Conegliano Valdobbiadene, le diverse altitudini dei terreni e le differenti esposizioni dei filari, microclimi etc., la teoria sull’esaltazione nel calice delle differenze territoriali è considerabile. In aggiunta, il limite di resa di 180 quintali di uva per ettaro del Prosecco DOC, contro i 130 q/ha del Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore Spumante DOCG (135 q/ha per le tipologie tranquillo e frizzante), non depone a favore dell’esaltazione territoriale nominata poc’anzi; altresì, è ben visto da chi ha molti silos da colmare e punta dritto come una freccia a massimizzare gli introiti.
Gli insorti me li immagino dire così: “sei nel territorio originario di questo vino; lascia stare il quartiere di Trieste, Plinio e tutto il resto: questo è il vertice della piramide qualitativa. E tu il territorio lo devi rispettare, lo devi valorizzare e lo devi comunicare. Devi produrre spumante DOCG, non il Prosecco DOC da pochi euro al litro, buono solo per lo spritz. Le decisioni in sede al Consorzio le dobbiamo prendere noi che produciamo prevalentemente DOCG, non i colossi che fanno DOC [ah, se il Lazio potesse parlare… N.d.R.]. Inoltre, queste colline sono un Patrimonio dell’Umanità Unesco, e si chiamano ‘Colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene’, per intero, con tutti e 50 i caratteri, spazi inclusi“.
La posizione dei ribelli, pur auspicabile, non pare di facile accoglimento per chi sta godendo di sicuri guadagni grazie alla bollicina più amichevole del panorama enologico. Il generico Prosecco è sempre apprezzato per la gentilezza al naso e al palato, la versatilità (aperitivo, pranzo o cena), il fatto che possa entrare nella mixology, unico vino, senza che i seguaci di Bacco si incazzino come iene. Insomma, la strada per la catechizzazione delle italiche genti sulle Rive del Prosecco è ancora un selciato senza asfalto, e ogni rivoluzione ha bisogno del favore del popolo. Quando dire Prosecchino comincerà a causare brividi a gran parte della popolazione, allora i ribelli avranno la storia dalla loro parte.
P.S.: il lettore apprezzi che nell’articolo non sono stati usati giochi di parole come “clima frizzante all’interno del Consorzio” oppure “i vignaioli si sono rotti le bolle”.