Festeggiare gli anniversari non piace a tutti. Si capisce. Le grandi parole, il gesto auto-celebrativo. Un po’ rompono.
Spesso manca anche il perché. Come diceva Oscar Wilde: “guastano la dolce semplicità delle nostre vite col ricordarci che ogni giorno che passa è l’anniversario di un qualche evento perfettamente privo di interesse”.
Amo le battute, in particolare quelle di Oscar Wilde. Ma oggi vorrei dargli torto.
Ricordare il 24 settembre 1716 non è privo di interesse, almeno per gli appassionati di vino. Trecento anni fa è nato un grande vino, il Chianti Classico, uno dei vini più famosi al mondo.
La sfida francese
Le faccende del Chianti Classico si inseriscono in un contesto storico di grandi cambiamenti. A cavallo tra il XVII e il XVIII secolo avviene, infatti, una forte internazionalizzazione degli scambi commerciali. In pochi decenni la scena è dominata dall’Inghilterra che prima di altre potenze europee aveva dato piena libertà alla sua classe imprenditoriale. In questo contesto il vino di qualità diventa uno status symbol, molto apprezzato dalla facoltosa borghesia inglese, la nuova classe dirigente alla ricerca di una distinzione sociale.
Vendere agli inglesi conviene. Lo sanno tutti i produttori dell’epoca. I primi però a capire fino in fondo i meccanismi del nuovo mercato inglese sono i francesi.
Loro intuiscono che per questa nuova classe molto abbiente ci vuole anche un nuovo vino, diverso dagli altri, riconoscibile nella sua unicità. La parola magica è differenziazione, il target commerciale su cui puntano i viticoltori francesi.
Secondo lo storico fiorentino Vincenzo Zampi, l’apripista della nuova strategia di produrre vini con una forte identità, fu Arnaud III de Pontac, ricco commerciante di Bordeaux e proprietario della tenuta di Haut Brion.
Ragionando da commerciante capì meglio e prima di altri le esigenze di una classe di commercianti. Legando l’alta qualità del suo vino ad un territorio ben definito, quello della sua tenuta, creò un prodotto unico, un vero e proprio marchio che promosse dal 1666 attraverso una sua taverna a Londra, la Pontack’s Head.
I Bandi del Granduca
Anche nella Toscana medicea c’è voglia di innovazione. Nel settembre 1716 il Granduca Cosimo III de’ Medici, con l’intento di favorire le esportazioni di vino, emana due decreti.
Mentre il primo mira a fronteggiare le frequenti frodi che danneggiano pesantemente la reputazione del vino toscano, il secondo, intitolato Sopra la Dichiarazione de’Confini delle quattro Regioni Chianti, Pomino, Carmignano e Val d’Arno di Sopra, definisce i confini del territorio dei vini di qualità. D’ora in poi solo un vino prodotto in queste zone poteva essere esportato.
Creando le fondamenta legali per una chiara identità territoriale del vino, si iscrive nella storia vitivinicola italiana come padre delle future DOC.
Purtroppo gli effetti dei provvedimenti granducali rimasero molto limitati. Non sufficienti a sollevare le sorti del vino toscano. Trovandosi in una posizione geografica marginale, lontano dai mercati di destinazione, il vino toscano doveva affrontare lunghi viaggi per raggiungere i mercati stranieri.
Da Firenze scendeva l’Arno fino a Livorno e poi continuava il suo viaggio via mare o veniva trasportato a dorso di mulo verso l’Europa settentrionale. In un modo o nell’altro spesso si guastava.
Anche i fiaschi impagliati creavano dei problemi. Chiusi con un cappelletto di carta perché non sufficientemente resistenti per essere tappati col turacciolo di sughero, come le bottiglie francesi, perdevano il loro contenuto già durante il viaggio e quasi sempre il vino si ossidava.
Inoltre nel Granducato i vignaioli, occupati soprattutto a migliorare la qualità del vino, non comprendevano come i cugini francesi, il crescente bisogno del marketing.
La ricetta del Chianti
Nonostante alcuni notevoli tentativi per favorire la viticoltura toscana, in primis la fondazione dell’Accademia dei Georgofili nel 1753, dobbiamo aspettare la seconda metà dell’Ottocento prima di vedere un miglioramento delle sorti del Chianti Classico.
Nel 1851 l’imprenditore e politico Barone Benedetto Ricasoli, proprietario del Castello di Brolio, intraprende un viaggio in Francia. Non è un viaggio di piacere. Visitando aziende nel Beaujolais, in Borgogna e nella Côtes du Rhône conosce i metodi e le pratiche della viticoltura francese, all’epoca la più avanzata d’Europa.
Tornato a casa si mette subito al lavoro per modernizzare la produzione vinicola nelle sue terre.
Dopo lunghi anni di studi, sperimentazioni e riorganizzazione dell’intero processo produttivo, meticolosamente documentati nel suo diario enologico, formula la ricetta classica per il Chianti: 70% di uva Sangiovese, 20% di Canaiolo e 10% di Malvasia. Vale la pena ricordare la considerazione di Ricasoli sull’uva bianca come la Malvasia che aiutava a creare vini di pronta beva, “si potrebbe farne a meno nei vini destinati all’invecchiamento”.
Dal Chianti al Chianti Classico
Il crescente successo del Chianti nell’Italia postunitaria risvegliava la vecchia abitudine di sfruttare il nome di un grande vino anche al di fuori dalla sua classica zona di produzione, cioè quella indicata nel decreto Granducale. Inizia così una lotta lunga e travagliata per proteggere l’identità territoriale di questo Chianti.
Nel 1932 un Decreto ministeriale riconosce la differenza tra il Chianti e il Chianti Classico trattando però il secondo come una semplice sottozona di un unico territorio del Chianti.
Solo nel 1996 con la creazione di due DOCG distinte, cioè quella del Chianti Classico DOCG e quella del Chianti DOCG si arriva a un risultato chiaro e definitivo. D’ora in poi si parla di due vini diversi, distinguendosi non solo geograficamente per la loro zona di produzione ma anche e soprattutto dal punto di visto enologico.
C’è un motivo oggettivo per le difficoltà di definire il territorio del Chianti Classico. A prima vista, la delimitazione del regno del Gallo Nero, il simbolo del Chianti Classico, sembra facile: Incorniciato a nord da Firenze e a sud da Siena, a est dai Monti del Chianti e a ovest dalle valli dei fiumi Elsa e Pesa, sembra un gioco da ragazzi.
Ma entrando nei dettagli di un’analisi dei terreni di diversa formazione e del microclima molto differenziato anche a causa di altitudini che oscillano tra 200 e 600 metri s.l.m. le certezze sulla piena legittimità dei confini di questa macroarea (estesa per ben 71.800 ettari) cominciano a vacillare.
Oggi i 7.200 ettari di vigneti iscritti all’albo del Chianti Classico si distribuiscono su due province: in Provincia di Firenze l’intero comune di Greve in Chianti e parte dei comuni di San Casciano in Val di Pesa, di Tavernelle Val di Pesa e di Barberino Val d’Elsa.
In provincia di Siena per intero i comuni di Castellina in Chianti, Radda in Chianti e Gaiole in Chianti nonché una parte dei comuni di Castelnuovo Berardenga e di Poggibonsi.
Per il Chianti Classico DOCG il disciplinare prevede una base ampeolografica costituita da un minimo di 80% di Sangiovese; per il restante 20% può essere utilizzata un’ampia gamma di uve rosse. Ovviamente si può produrre anche un Chianti Classico da sole uve Sangiovese.
Vitigni a bacca bianca invece, ammessi fino alla vendemmia 2005, sono ormai un passato quasi dimenticato.
Oltre alla diversità geomorfologica, all’altitudine ed all’esposizione dei vigneti, lo stile del Chianti classico, il suo profilo organolettico e gustativo dipende anche dalla facoltà di scelta tra diversi vitigni supplementari. Autoctoni come il Canaiolo o il Colorino oppure vitigni alloctoni tra cui il Cabernet Sauvignon e il Merlot.
Non è sempre stato così. Fino al 1996 l’uso di Cabernet Sauvignon o Merlot per il Chianti Classico era proibito. Torniamo un attimo indietro per vedere che cosa è successo.
La ribellione dei Supertuscan
Il disciplinare del Chianti, divenuto DOC nel 1967, prevedeva l’uso obbligatorio di uve bianche come Trebbiano o Malvasia mentre l’utilizzo di uve internazionali come Cabernet Sauvignon, Merlot o Syrah non era contemplato.
Queste regole si scontravano con le accresciute conoscenze enologiche nonché una forte voglia di sperimentare che per molti secoli sembrava non esistere nelle terre toscane.
Per tanti produttori le regole della DOC erano una giacca troppo stretta. Per molti non avevano alcun senso.
Ribellarsi però non è da tutti. Ci vogliono delle spalle forti. Il coraggio di partire da soli. Piero Antinori e il suo enologo Giacomo Tachis ci provano con un vino che in pochi anni ribalterà completamente il concetto tradizionale del Chianti.
Il suo nome: Tignanello. Come primo passo, il Tignanello (annata 1971) esce come semplice vino da tavola rinunciando alla prestigiosa classificazione come DOC.
Il passo successivo (annata 1975) è quello decisivo che sfida le convinzioni alla base del disciplinare del Chianti: da quella vendemmia in poi questo vino sarà prodotto senza uve bianche ma con 80% di Sangiovese e un restante 20% di Cabernet Sauvignon.
Dal 1983 la ricetta prevede anche una piccola percentuale di Cabernet Franc.
Lodato da Veronelli e dalla critica internazionale il Tignanello si iscrive negli annali della viticoltura toscana come primo vino moderno nella zona del Chianti Classico. Nasce così il primo Supertuscan, come scrisse Frank Pryal del New York Times.
Altri vini ribelli come Le Pergole Torte (Montervertine), il Flaccianello della Pieve (Fontodi) o il Cepparello (Isole e Olena) oggi di fama mondiale, seguiranno. Ma è stato il Tignanello che ha creato una reazione a catena incoraggiando tendenze progressive anche in altre zone vitivinicole italiane.
Il vero padre del Rinascimento del vino italiano.
Quando, nel 1996 la DOCG ha finalmente legalizzato l’eresia enologica degli anni Settanta e Ottanta, pochi ribelli avevano voglia di ritornare nella casa del Chianti Classico. Producendo vini con Sangiovese in purezza o con piccole percentuali di Merlot o Cabernet Sauvignon, oggi potrebbero legittimamente presentarsi come Chianti Classico.
Troppo tardi però. Ormai the war is over come dicono gli americani.
Il Chianti Classico sì è modernizzato senza che la tanto temuta cabernizzazione abbia danneggiato la sua identità e il suo prestigio. Al contrario.
Ma la lezione fondamentale che i ribelli delle terre del Chianti Classico ci hanno insegnato è che non c’è una sua ricetta unica. Ogni zona, anzi microzona richiede una filosofia diversa. In vigna e in cantina.
L’aggiunta di una percentuale di Cabernet Sauvignon o di Merlot non è una bestemmia nella casa del Gallo Nero. E questa affermazione vale anche quando il Chianti Classico viene vinificato con Sangiovese in purezza. Lo sapeva meglio di tutti Giulio Gambelli, il più grande conoscitore di questo vitigno.
L’identità del Sangiovese si esprime in molti modi. Da vigna a vigna e per ogni annata. Perciò ogni nuova situazione richiede un nuovo pensiero. La frase è di Bertolt Brecht ma vale anche per il vino. ll Chianti classico non è uno ma, diciamolo pure, centomila.
Dove assaggiare
La scelta migliore per conoscere il Chianti Classico è andare per cantine. Visto che ce ne sono centinaia, è un compito piuttosto impegnativo, non solo per chi viene da fuori. Per fortuna, indirizzi validi per degustare il Chianti Classico nella sua terra ce ne sono.
A Siena l’Enoteca Italiana, all’interno della Fortezza Medicea, offre un’ampia scelta. Anche nel cuore della zona di produzione, a Radda in Chianti, vi aspettano degustazioni di vario tipo nella Casa del Chianti Classico, che si trova negli ambienti molto suggestivi dell’ ex Convento di Santa Maria al Prato.
L’enoteca Falorni a Greve in Chianti propone degustazioni al bicchiere con circa 100 etichette diverse. Molto interessante anche l’enoteca del Chianti Classico al primo piano del Mercato Centrale di Firenze che si presenta con oltre 200 vini che portano il marchio del Gallo Nero.
Aperto dalle 10.00 fino a mezzanotte.
Cosa assaggiare
Oggi la qualità media del Chianti Classico è davvero alta. Per eno-curiosi vale certamente la regola che qualche deviazione o divagazione su strade secondarie vi farà scoprire vini sorprendenti che spesso valgono un viaggio.
Anche quando non sono presenti nelle liste dei classici presentati nelle guide. Con questo caveat propongo alcuni vini ad alto tasso edonistico.
Vini d’annata
Il Chianti Classico si presenta con tre tipologie diverse. I vini d’annata sono la base solida della piramide di qualità. Di solito sono di ottima beva.
Profumi freschi che ricordano la viola mammola e frutti rossi li rendono più immediati dei loro fratelli di fascia più alta. Caratterizzati da un corpo medio accompagnano molto bene pietanze non solo toscane. Spesso eccellono per un rapporto qualità-prezzo molto favorevole, almeno per gli standard toscani. Provate questi:
Badia a Coltibuono, Chianti Classico 2013
Tenuta di Lilliano, Chianti Classico 2013
Ormanni, Chianti Classico 2011
Castello di Cacchiano, Chianti Classico 2011
Istine, Chianti Classico 2012
Le Riserve
Per il secondo livello qualitativo il disciplinare prevede un invecchiamento minimo di 24 mesi di cui tre in bottiglia. Una particolare cura in vigna e in cantina regala a questi vini i requisiti per invecchiare.
Tra di loro si trovano molte icone che hanno fatto la storia di questo vino ma anche new entries che meritano tutta l’attenzione.
E’ consigliabile non commettere infanticidi enoici bevendoli troppo presto. In teoria sono pronti appena escono sul mercato ma aspettarli qualche anno in più conviene.
Castello di Monsanto, Chianti Classico Riserva Il Poggio 2010
Ruffino, Chianti Classico Riserva Ducale Oro 2011
Castello di Volpaia, Chianti Classico Coltassala Riserva 2010
Castell’In Villa, Chianti Classico Riserva 2010
Felsina, Chianti Classico Riserva Rancia 2010
Istine, Le Chianti Classico Riserva Levigne 2012
Gran Selezione
La Gran Selezione è stata introdotta nel 2014 per migliorare ulteriormente l’immagine del Chianti Classico. L’intento è di creare grandi vini che possano pienamente competere con i famosi fratelli a base Sangiovese come il Brunello ma anche con altre zone vinicole eccellenti all’estero.
I vini della Gran Selezione si ottengono da uve di una sola vigna (cru) o da una selezione delle uve migliori di un’azienda.
Questa seconda possibilità è problematica in quanto solo una piramide qualitativa basata sulla qualità di un singolo vigneto come è da tempo prassi in Francia e in Germania (per i vini del VDP) potrebbe garantire vini di chiara espressione territoriale.
Obbligatorio un invecchiamento di 30 mesi di cui 3 in bottiglia, quindi leggermente più lungo rispetto alla riserva. Da veri top runners qualitativi i vini della Gran Selezione si differenziano dagli altri anche per i prezzi decisamente più alti.
Fontodi, Chianti Classico Gran Selezione, Vigna del Sorbo 2011
Castello di Fonterutoli, Chianti Classico Gran Selezione 2011
Tenuta di Lilliano, Chianti Classico Gran Selezione 2011
Castello di Brolio (Barone Ricasoli), Chianti Classico Gran Selezione Colledilà 2013
Antinori, Chianti Classico Gran Selezione Badia a Passignano 2010