Chiamatela fascinazione per i contrasti, ma partecipare a una degustazione su un figlio di un dio minore come il Cesanese di Olevano Romano (noto come Il rosso di Roma), per un capitolino che vive a Milano, è una tentazione irresistibile. Almeno per me, che ho litigato da tempo con il vino laziale e sono un po’ di anni che cerco di farci pace.
Nell’immaginario collettivo il Cesanese, prima di essere il più antico vitigno autoctono laziale, è soprattutto un’esperienza rustica, conviviale e sincera.
O qualunque aggettivo con il quale si voglia apostrofare l’atto del bere quando non si ha di fronte qualcosa di esattamente indimenticabile.
Eppure il Cesanese non è brutto come lo si dipinge. O meglio, non è brutto come ce lo hanno raccontato decenni di cattive interpretazioni, scentrate e spesso difettate, forse perché è un vino che parla una lingua troppo diversa dalla cucina romana e che è stato piegato alle più svariate esigenze e abitudini.
L’assaggio di una dozzina di produttori mostra un evidente miglioramento collettivo, dopo anni in cui singoli exploit squarciavano ogni tanto un muro di mediocrità.
L’identità del vitigno rimane ancora troppo fluttuante e gli industriali fanno parecchi danni, però cominciano a emergere dei punti fermi, anche se abbastanza contrastanti, sui quali produrre un piccolo bignami.
Tipo:
— Il Cesanese è un finto magro o un falso grasso.
— Ovvero è un vino di grande struttura e alcolicità, eppure ha un frutto fresco e una bella bevibilità.
— A volte è perfino “vinoso” come una Barbera giovane, per intenderci.
— Di conseguenza può soffrire i lunghi affinamento in legno, che rischiano di appesantirlo.
— In bocca è caldo e morbido, ma chiude spesso con una piacevole nota amaricante.
— Costa poco.
Per farsi un’idea consiglio:
Cesanese di Olevano Romano Superiore 2013
Perfetta sintesi del vitigno, ha un naso armonico (che tradisce ancora un po’ di giovinezza, con una lieve riduzione iniziale) e una bella evoluzione nel bicchiere. La bocca è morbida e calda, mai stucchevole, tutta giocata sui frutti rossi e la prugna, con una lieve tostatura, nonostante l’affinamento sia in acciaio. Bella chiusura, discretamente elegante. Non un campione di beva.
Càlitro 2013 di Riccardi Reale
Qui il legno (di castagno) c’è, ma fornisce carattere e un particolare sensore affumicato a un vino abbastanza distante dagli altri assaggiati. L’eleganza olfattiva non è la sua forza, ma in bocca è dinamico e scattante, molto vivo. Di certo non si sente l’alcol al 15%.
L’azienda, a conduzione biodinamica, è in mano a Piero Riccardi e Lorella Reale, noti anche come giornalisti di Report. Interessante anche il loro Collepazzo 2013, dove emergono ancora di più sentori animali e di pelle che non ti aspetti.
Cesanese di Olevano Romano 2010
Bella pulizia ed equilibrio, ottima gestione del poderoso grado alcolico (15%).
Non aspettatevi grandi acidità e allungo in bocca, ma la ricchezza e il finale balsamico aiutano sicuramente la beva. Io lo proverei massimo a 16 gradi di temperatura. Rapporto qualità/prezzo stordente. Siamo abbondantemente sotto i 10 euro.
Cesanese di Olevano romano Superiore 2009 Cirsium
Ovvero la memoria storica del buon Cesanese. Produttore tra i primi a mostrarne le potenzialità e a farlo uscire dai confini regionali. Non a caso è stato scelto un 2009 per dimostrare la buona longevità della tipologia, sulla quale però ho qualche dubbio. Rotondo e fruttato, è democratico senza essere banale. È anche il più preciso e consapevole, quello che infatti se la gioca sul mercato internazionale.
[Crediti | Vini Giacobbe, Cantine Riccardi Reale, Compagnia di Hermes, Damiano Ciolli ]