Riceviamo e volentieri pubblichiamo un intervento di Giacomo Sartori a proposito del disegno di legge sul biologico e delle connesse polemiche sull’agricoltura biodinamica, che il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi ha definito “pratica stregonesca”.
Gentile professore,
sono un agronomo che si è occupato per qualche decina di anni di suoli, a mezzo tra ricerca e cartografia, e alla luce della mia esperienza vorrei farle presente alcune considerazioni, che spero potranno aiutarla a riflettere sulle specificità dell’agricoltura. E forse a farle nascere la curiosità di documentarsi meglio su questa attività che è intrinsecamente legata alla natura. E magari perfino a ripensare almeno in parte le sue affermazioni e prese di posizione a proposito dell’agricoltura biodinamica.
Un qualsiasi campo coltivato, con qualsiasi tecnica, è un sistema che pur essendo molto più semplice di un ambiente naturale (gli attori sono meno numerosi), è estremamente complesso, ed estremamente variabile nel tempo e nello spazio (anche a distanze molto ravvicinate). Un sistema del quale allo stato attuale sappiamo molto poco. Sappiamo pochissimo in particolare della sostanza organica presente nel terreno, delle sue forme, dei suoi legami con la frazione minerale, del suo modo di degradarsi. Alcune ricerche dell’ultimo decennio mettono in discussione radicalmente i fondamenti che sono stati ritenuti validi per due secoli, senza però dare ancora un convincente quadro complessivo. Quando questo comparto è la chiave della fertilità chimica (perché cede elementi alle piante) e fisica (è fondamentale per mantenere una buona organizzazione spaziale e per trattenere l’acqua). Ed è fondamentale per lo stoccaggio del carbonio (la quantità presente nei suoli a livello planetario è tre volte quella contenuta nella vegetazione), che come sa meglio di me ha un ruolo essenziale negli equilibri che regolano l’effetto serra.
La vita segreta dei suoli
In pochi grammi di suolo, lo si dice sempre, ci sono miliardi di microrganismi, di migliaia di specie differenti. Che sono essenziali per il suo funzionamento, a cominciare dal ciclo degli elementi. Certo le tecniche molecolari disponibili da qualche decennio permettono finalmente di mettere in naso in questo ginepraio, ottenendo buone informazioni su alcune funzionalità d’insieme, ma quando mai avremo dei dati dettagliati, che ci permetterebbero di capire perché in un dato sito si ritrova un determinato pool, che lavora in un modo, e qualche metro più in là le cose sono completamente differenti? E che dire dei virus, che sembrano essere fondamentali per la mortalità dei batteri, dei quali conosciamo poco o niente?
E che dire della fauna del suolo? A cominciare dai lombrichi, dei quali il geniale Darwin ha riconosciuto molto presto il ruolo fondamentale (erano considerati nocivi). Sappiamo qualcosina di qualche specie (sono centinaia, ciascuna con la sua ecologia), ma il più delle volte sono informazioni molto parziali ottenute in laboratorio, lontane dalla complessità della realtà, dalla sua estrema variabilità spaziale. Che lombrichi ci sono nei campi italiani, quali rapporti hanno con i vari ambienti, con i vari microambienti e microclimi, con gli interventi dell’uomo? Che impatto hanno le varie tecniche agronomiche sulle varie specie? Nessuno può rispondere.
Mi sono limitato a qualche esempio riguardante il suolo, che conosco meglio. Colleghi che si occupano delle piante, nel complesso molto più studiate, ci direbbero che per esempio degli apparati radicali – che intrattengono fondamentali rapporti simbiotici con i funghi (fino a pochi decenni ignorati, parlando di piante coltivate), i quali a loro volta interagiscono con microrganismi, che a loro volta interagiscono con le frazioni organiche e minerali, e le soluzioni presenti nei pori – si sa poco.
L’agricoltura come attività empirica
Resta un problema ancora più grande. Le varie discipline sono dei compartimenti stagni, con scale di osservazione e tecniche diversissime. Diventa maledettamente complicato, lo si fa molto di rado, provare mettere assieme i vari linguaggi e le varie informazioni specialistiche. Un bravo ricercatore che si è occupato per tutta la vita di carabidi, e quindi ha ottenuto un discreto dominio delle specie presenti nel territorio geografico di sua competenza (il che non vuol dire conoscere il comportamento di ognuna), poco sa degli altri coleotteri, e ancora meno degli altri animali. E la maggior parte dei microbiologi non sanno in genere nulla degli organismi superiori, ai quali la microflora è legata, e spesso nemmeno degli ecosistemi che studia. E nulla della frazione minerale.
Certo questo stato delle conoscenze così lacunoso e frammentato rispecchia la scarsità di investimento in campi del sapere non legati a immediate possibilità di guadagno, e senza possibilità di applicazioni tecnologiche. Ma riflette anche la micidiale complessità di qualsiasi ambiente naturale, seppur coltivato (un agrosistema è appunto più semplice di un ecosistema). Qualsiasi modello di coltivazione noi adottiamo, che sia industriale o contadino (la grande maggioranza dell’agricoltura mondiale è contadina), convenzionale, biologico o biodinamico, sottintende questa enorme lacuna di conoscenze riguardo a dove siamo (in termini ecologici) e a quello che provochiamo con le nostre pratiche. In altre parole è un’attività per molti versi empirica. In Italia, restiamo con i piedi per terra, pochissime aziende tengono conto della specificità dei tipi di terreno che coltivano, e sanno tarare i loro interventi alla luce di questi. Sprecando acqua e risorse, contaminando, peggiorando le cose. Anche laddove ci sono buone carte dei suoli. Sembra incredibile, ma è così.
Come lei sa bene, prima dell’apparizione della scienza, e in mancanza di un approccio scientifico, i progressi dell’agricoltura si sono basati, e questo fin dall’inizio, sull’osservazione e sulle evidenze empiriche. Senza conoscere i processi, o vedendone qualche effetto (es. la stanchezza del terreno dei Romani), si adottavano le tecniche che permettevano dei raccolti più abbondanti e di migliore qualità, badando che fossero riproducibili nel tempo. Il buon senso faceva sì che ci sforzasse in genere di evitare, anche proprio grazie a una differente visione della posizione dell’uomo in quella che adesso chiamiamo natura, di innescare forme di degradazione, o di provocare dei danni.
La cosiddetta rivoluzione verde
Dopo la prima guerra mondiale, la disponibilità e l’impiego (su pressioni molto forti dell’industria chimica) di fertilizzanti chimici di sintesi (in particolare azotati), o comunque derivanti dall’industria, e di prodotti fitosanitari, ha focalizzato gradualmente l’attenzione nei paesi avanzati su queste poche sostanze, i cui effetti erano ben visibili e indubitabili. Ignorandone gli effetti negativi, portando via via a dimenticare la complessità dei fattori in gioco, e vedendo il suolo come un substrato inerte e privo di vita.
Fino a tempi recentissimi i campi coltivati sono stati quindi considerati dei sistemi nei quali andavano apportati i tre macroelementi più utilizzati dalle piante (azoto, fosforo e potassio), e le sostanze chimiche che potessero tenere a bada i patogeni e i parassiti delle colture. Facendo completamente astrazione dal funzionamento del suolo, che veniva pesantemente impattato da una concimazione solo chimica e dai pesticidi. Con quella che viene chiamata “rivoluzione verde” questo modello semplificato è stato esportato anche in altre grandi zone del mondo (in particolare dell’Asia e del Sudamerica), mentre in altre non ha attecchito (Africa). Esso ha consentito di incrementare in modo netto le rese a ettaro.
Il risultato di questa impostazione “riduttivista” è un impatto insostenibile sui terreni e sull’ambiente, e una drammatica diminuzione della biodiversità. Non cito alcuna bibliografia, è sufficiente riferirsi ai numerosissimi documenti della FAO, degli organismi di ricerca internazionali e nazionali, dell’Unione Europea. Non è più possibile continuare così, perché le rese attuali non possono essere mantenute nel tempo (in particolare per il tracollo del contenuto di sostanza organica nei terreni, e per l’erosione di questi), e perché i guasti ambientali sono insostenibili. Qualsiasi esperto con una visione ampia, e la maggior parte degli addetti al mestiere, sono d’accordo. Dove le opinioni divergono, anche radicalmente, è sui possibili rimedi, sulle strade da prendere per uscire dalla profondissima crisi che è sotto gli occhi di tutti, e che proprio la scienza analizza in modo sempre più approfondito.
C’è un altro aspetto altrettanto preoccupante. Le rese energetiche di questa agricoltura “tutta chimica”, sono relativamente basse, tenendo in conto tutti i fattori diretti e indiretti (non solo i concimi e i pesticidi, ma anche i macchinari, l’irrigazione, le infrastrutture aziendali). Anche senza considerare la distribuzione e le trasformazioni industriali, energeticamente molto onerose. Il bilancio della frutticoltura e degli allevamenti animali, in particolare, è in genere negativo, o molto negativo: per produrre l’energia contenuta in una data quantità di frutta o di carne, spendiamo una quantità di energia maggiore. Energia che viene dai combustibili fossili, che per un secolo hanno avuto costi bassi. Quindi anche l’agricoltura, che è il comparto che può produrre più energia di quanta ne consumi (le piante utilizzano l’energia solare per sintetizzare, mediante la fotosintesi, sostanza organica), dipende allo stato attuale dai combustibili fossili. Da anni si fanno degli sforzi, ma spesso le tecnologie palliative hanno alti costi energetici nascosti.
Approccio riduttivista e approccio olistico
Nonostante le sue conoscenze a dir poco parziali, l’agricoltura convenzionale o industriale o “produttivista” (non fermiamoci ai nomi, qui il nodo è la scarsa o inesistente attenzione ai danni e all’ambiente) ha saputo ammantarsi della autorevolezza e della nobiltà della scienza, relegando i saperi tradizionali, che stanno tuttora alla base della maggior parte delle agricolture planetarie, nel rango delle conoscenze sorpassate. Perché effettivamente i prodotti chimici impiegati erano il frutto di una intensa ricerca (in origine militare, in molti casi), seppure interessata e avulsa da una prospettiva ambientale, e perché i risultati in termini di rese a ettaro sono stati per un certo periodo spettacolari. E perché le industrie chimiche del settore (sempre più concentrate, sempre più potenti, più determinate e più spregiudicate) avevano tutto l’interesse a promuovere questa immagine di modernità e di progresso.
L’impiego dei sistemi più recenti di geolocalizzazione, di sensori remoti, e dell’ingegneria genetica, per venire al presente, può dare l’idea di un completo e millimetrico controllo di tutti i fattori in gioco, ma nei fatti nasconde in genere una completa ignoranza. Nessuna tecnologia, per perfezionata che sia, può palliare la mancanza di conoscenze di base sul paesaggio, sui suoli e sul loro comparto vivente. E anche i modelli matematici mostrano i loro limiti predittivi, essendo basati su conoscenze molto parziali.
Fin dall’inizio della svolta “chimico-riduttivista” dell’agricoltura, diversi agronomi e diverse correnti di pensiero hanno evidenziato i limiti di un approccio così miope, e hanno sottolineato la necessità di una visione ecologica. Ma in realtà già alla fine dell’Ottocento avevano avuto un discreto impulso negli Stati Uniti approcci olistici che cercavano di combinare scienze naturali e economia, in particolare per lo studio degli uccelli (“economic ornithology”), con il fine di valutarne gli aspetti benefici in agricoltura. L’agricoltura biologica e quella biodinamica, ma anche la permacultura, che sono andate crescendo nell’ultimo cinquantennio, hanno radici in questa ben più antica corrente di riflessione e di sperimentazione agronomica, e si sono diffuse mano a mano che le prove dei danni dell’agricoltura convenzionale erano più gravi e più evidenti.
Molto osteggiate per lungo tempo, e con peripezie diverse nei vari Paesi, sono in realtà un innegabile successo: dimostrano nei fatti che si può coltivare a larga scala con degli impatti più bassi sull’ambiente, senza fare ricorso a sostanze molto tossiche, consumando meno energia, producendo cibi sani, rispettando gli animali. Intendiamoci, per ognuno di questi fattori si possono trovare singoli casi e studi e aspetti che smentiscono la dinamica positiva, la quale resta pur sempre, alla luce dell’insieme delle conoscenze, innegabile. Non lo dice un manipolo di ecologisti, lo dicono i documenti e le strategie dell’Unione Europea, elaborate dagli esperti più titolati delle varie discipline agronomiche e naturalistiche. Non a caso esse costituiscono sempre di più un esempio anche per l’agricoltura tradizionale: sta succedendo proprio in questi mesi per la barbabietola da zucchero, per la quale si cercano delle tecniche per palliare la prossima messa al bando degli insetticidi neonicotinoidi (letali per i pronubi).
I limiti e le prospettive del biologico
Ma certo nessuno ha la soluzione per tutti i problemi, certo l’agricoltura biologica, soprattutto se si intende il marchio commerciale (la stessa dizione indica anche la corrente di pensiero, e le due cose non coincidono), non è esente da limiti e pecche. E certo le sfide future sono enormi, per questo approccio come per qualsiasi altro. I primi a esserne coscienti sono gli stessi protagonisti, come dimostrano i documenti della loro federazione internazionale (IFOAM) e della loro associazione nazionale (AIAB). Diventa però pretestuoso mettere l’accento solo sulle debolezze, sulle problematicità (es. l’utilizzo del rame, sempre citato), e sugli aspetti dove i miglioramenti sono più dubbi, ignorando dei risultati che qualche decennio fa nessuno si sarebbe aspettato. Non per niente un sesto della nostra agricoltura, con un fatturato notevole, e prodotti di pregio, è ora biologica.
Per continuare per questa strada, che per la maggioranza degli esperti è l’unica possibile, è necessario sperimentare e fare ricerca. L’agroecologia è l’approccio scientifico che corrisponde a una visione ecologica, o sistemica. Un nome che ora molti impiegano, quando praticarla richiede, proprio per le difficoltà sopra accennate di mettere assieme discipline molto distanti le une dalle altre, e studi di lunga durata, tempo e mezzi. Una sfida molto impegnativa per la stessa ecologia, con la sua tendenza attuale a allontanarsi dai dati e dalle conoscenze di terreno (su questi aspetti trovo utile Christian Lévêque, L’écologie est-elle encore scientifique?, Editions Quae). Con partecipazione attiva degli addetti ai lavori, perché appunto non ci sono ricette universali, ogni zona, o anche ogni microzona, visto che l’Italia è un Paese di microzone, con le sue peculiarità e consuetudini (si veda per il compendio cartografico tascabile Un’altra Italia, di Massimo Angelini, delle Edizioni Pentagora), ha bisogno di soluzioni mirate.
Biodinamica e scienza
Anche l’agricoltura biodinamica, che è una realtà più ridotta, si è dimostrata molto valida. L’agricoltura non si giudica dalla correttezza dell’impianto teorico e ideologico, ma dalle riuscite produttive, qualitative, economiche, ambientali. In mancanza di conoscenze adeguate, resta appunto un’attività per molti versi pragmatica. I riferimenti alla spiritualità, così come i tanto discussi preparati e le influenze lunari, possono inorridire gli spiriti più cartesiani, ma l’insieme delle pratiche colturali “olistiche” adottate (la visione complessiva) funzionano molto bene, e i risultati ci sono, tutti gli addetti del settore lo sanno. Personalmente sono stato molto colpito, in particolare, dagli esiti in vigneti di altissimo pregio su terreni molto poveri di acqua. Non per niente una cinquantina di cattedratici e di ricercatori, che nulla vogliono avere a che fare con i riferimenti ideali, e lo sottolineano, hanno scritto nell’autunno del 2018 una lettera aperta per ribadire l’importanza di analizzare con metodo scientifico le pratiche colturali adottate. Sia in altri paesi europei che in Italia sono in effetti numerose le equipe e i progetti che studiano con rigore tale approccio (veda questo articolo divulgativo). E chi pratica l’agricoltura biodinamica non si oppone certo alla ricerca scientifica, sarebbe anzi ben contento, nella maggior parte dei casi, di poterne ricevere il contributo (veda questo reportage). Risulta quindi fuori luogo, e crea sconcerto nell’intero settore agricolo, riprendere vecchi stereotipi e preconcetti che non corrispondono allo stato delle cose.
Credo che lei quando accusa di oscurantismo l’agricoltura biodinamica, difenda strenuamente l’attaccamento che ha lei per la scienza, nei rami che lei conosce, e ai quali ha dato importanti contributi. Lei immagina che in agricoltura da un lato ci sia chi si rifà alla scienza, con l’agricoltura convenzionale, e dall’altro chi la rifiuta. In realtà i primi ignorano quasi tutto di quello che la scienza dice (mi lascia chiamarla “stregoneria scientista”?), applicano grossolane ricette con micidiali effetti secondari e che non tengono conto della maggior parte dei fattori e delle specificità locali. E i secondi si arrabattano con soluzioni e tentativi empirici, senza in genere alcuna preclusione per la scienza. In ogni caso non è in gioco l’approccio scientifico che lei conosce e ama, che mira a trovare rigorose spiegazioni, capire i processi, e approntare strumenti di predizione.
Faccia per piacere una cosa, professore, si conceda un’esperienza diretta, vada a visitare un’azienda biodinamica. Si faccia accompagnare da qualcuno della loro associazione, parli con lui, parli soprattutto con i coltivatori. Nel novanta per cento delle probabilità si troverà di fronte delle persone attente e preparate, interessate ai risultati della scienza, desiderose anzi che le pratiche che mettono in atto, e delle quali studiano attentamente i risultati (seppure empiricamente) siano valutate anche dalla scienza. Ci ragioni sopra, si documenti, non ascolti solo una campana, rappresentata in genere da esperti di altri settori (o di discipline più restie a un approccio ecologico). Ne risulterà forse molto sorpreso.