Partiamo con un test per bevitori occasionali o comunque “normali”, non valido per eno-strippati alla canna del gas. Quali parole a voi poco note sentite più spesso dal vostro amico che parla da solo di vini?
Probabili risultati:
Bel tannino vellutato
Cazzo se è beverino
Molto minerale questo bianco
Ha lieviti indigeni
È un vino autoctono.
Ecco, prendiamo autoctono.
È una bella parola. Va molto di moda in un periodo in cui la retorica territoriale spinge fortissimo, ma è frequentemente usata a sproposito. Merita di essere “spiegata bene”, o vogliamo considerare la chiarezza una prerogativa esclusiva della birra (cfr. “La birra artigianale spiegata bene”, rubrica di Dissapore).
Di solito è quasi impossibile l’assoluta origine di un vigneto, ma se definite come autoctono come un vitigno che si è sviluppato, evoluto e adattato in un determinato contesto, caratterizzandone il territorio senza però esserne per forza originario, non dite una scemenza.
Ora che ho vinto il premio divulgatore 2016 mi suicido aprendo un alfabeto dei vitigni autoctoni italiani.
L’inizio mi sorride, visto che possiamo iniziare con un fuoriclasse indiscutibile: l’Aglianico.
Che già dal nome rimanda alla Grecia – ma è valida anche la teoria secondo cui il nome deriva dal termine latino aglaia, ovvero splendore. Insomma, la questione è spinosa, ma eviterei di complicarci troppo la vita.
Però per chiudere il cerchio posso dirvi che ultimamente anche una cinese si è messa a produrlo. Lei si chiama Judy Leissner Chan, la cantina invece Grace Vineyard. No, non l’ho assaggiato.
Le basi
L’aglianico ha bacca rossa, una dozzina di sinonimi (olivella di San Cosmo il mio preferito perché è il più lisergico), una vendemmia medio-tardiva (ottobre), ama il freddo, fa incazzare qualsiasi viticoltore costretto a gestirne la sua riluttanza e annaffia le tavole della Basilicata e della Campania (sottotipo glorioso Taurasi), in particolare, ma anche del Molise e della Puglia.
Insomma come autoctono ha un’adattabilità abbastanza estensiva.
Lo slogan
Per chi ama le sintesi brutali e spesso mortificanti, le formule giornalistiche o i lanci da volantino del supermercato, l’Aglianico è venduto come “il Barolo del sud”.
Perché ha grande concentrazione, austerità e potenzialità d’invecchiamento. Insomma è un vinone, ma con personalità da vendere.
Ora però beviamo.
Consigli per gli acquisti
>Radici Taurasi Riserva – Mastroberardino
Ovvero la storia, in bottiglia, dell’Aglianico di Montemarano, in provincia di Avellino. Cantina ultracentenaria e d’importanza indiscutibile, ha affrontato numerosi cambiamenti nei decenni, ha accusato il colpo del decennio piacione del vino italiano (gli anni 90), ma rimane un passaggio indispensabile per comprendere il Taurasi.
Per disciplinare il Taurasi contiene almeno l’85% di aglianico e deve invecchiare minimo 3 anni, di cui almeno uno in botti di legno. Le riserve hanno affinamenti ancora più lunghi e longevità spiccate, ma in gioventù non sono sempre molto affrontabili.
Se trovate vecchie annate provatele senza remore, sono vini che si esprimono al meglio dopo almeno un decennio.
Aglianico del Vulture Titolo – Elena Fucci
Quando si comincerà a parlare con maggior frequenza ed entusiasmo della Basilicata (sicuramente tra tre anni, visto che Matera sarà capitale europea della cultura), l’Aglianico del Vulture passerà dallo status di vino di culto a quello di vino da rubrica gastronomica in chiusura di telegiornale.
Alcuni scriveranno post imprecisi e i lettori punteranno il dito.
Noi intanto continuiamo a bere il rosso di Elena Fucci, sua unica etichetta, simbolo delle caratteristiche del vitigno.
Concentrazione e dolcezza, aiutate dall’affinamento in barrique, ne caratterizzano a volte un po’ troppo il profilo. Prendere o lasciare. Io lo preferisco a quello di Paternoster, altra realtà importante della Basilicata.
Aglianico del vulture Serra del prete – Musto Carmelitano
Altro aglianico lucano sinuoso e corpulento, da non farsi sfuggire, specie se si amano i vini pasto, molto ricchi di corpo e potenza.
L’azienda non ha moltissimi anni sulle spalle, ma ha idee chiare e costanza. Se volete rimanere da queste parti e provare qualcosa di meno impegnativo suggerisco i vini di Casa Vinicola D’Angelo.
Vigna Macchia dei Goti Taurasi – Antonio Caggiano
Torniamo in Campania e scrolliamoci di dosso una certa dolcezza lucana.
Un vino pazzesco per ricchezza, espressività e personalità: la bevuta perfetta per abusare di sentenze ampollose e sfrontate come “un custode del territorio”.
Turassi Riserva 2007 Michele Perillo
Tra le vette assolute della tipologia, tanto che su “Guida essenziale ai vini d’Italia”, la guida di Daniele Cernilli, l’annata 2007 ha appena vinto il titolo di “rosso dell’anno”.
Non l’ho ancora provato, ma la 2006 era una bevuta stratosferica. Se considerate che l’azienda esce ora con una vendemmia di 9 anni fa vi fate un’idea dei tempi che può richiedere il nostro amico austero.
Nero Re Taurasi DOCG – Il Cancelliere
Nome felice per uno dei Taurasi più golosi in circolazione.
L’altitudine lo aiuta parecchio (siamo a 550 metri), ma è soprattutto l’impronta artigianale (l’azienda non fa nessuna filtrazione, chiarificazione e manovre enologiche invasive), a donargli grande espressività e una bevibilità a volte sottovalutata dalla tipologia.
Cercate l’annata 2008: è in grande forma.
Aglianico del Taburno “Vigna Cataratte” – Fontanavecchia
Andiamo a Benevento e ritorniamo alla barrique e a un’altra bottiglia che va saputa aspettare per goderne a pieno.
Una bevuta imponente nel segno della frutta rossa matura e del camino dove da bambino attendevate solo che fossero piazzate dozzine di salamelle.
Di Majo Norante, Contado Aglianico del Molise doc
L’aglianico del Molise è buono, alcune volte meno impegnativo e costa poco.
Io un giro ce lo farei.