Vino beverino, vino di grande, pronta o facile beva, ma come parliamo? Dire di un vino che si beve facilmente, cioè che non è una medicina amara, ma piacevole al naso e al palato, sembra quasi scontato. Che altro dovrebbe essere se non almeno bevibile? Non è la bevibilità semplicemente il requisito minimo di ogni bevanda?
Per dare un senso più preciso e condivisibile a questa parola così gettonata negli ultimi anni, la si deve collocare nel contesto storico del vino italiano del dopoguerra.
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Come è noto, fino agli anni Sessanta il vino è stato un alimento essenziale per ampi strati della popolazione, diventando poi, nei decenni successivi, una bevanda edonistica. Questo passaggio dal valore nutritivo del vino alle sue caratteristiche gusto-olfattive ha reso necessario un miglioramento delle tecniche in vigna e in cantina. Parliamo degli anni Settanta e Ottanta, l’epoca d’oro degli enologi, quando alcuni di loro diventano delle vere star.
Comprensibile che un cambio di prospettiva così radicale porti facilmente a delle esagerazioni. E’ soprattutto negli anni Novanta che si riscontra una focalizzazione estrema sugli aspetti tecnici della vinificazione. É il periodo dei vini super concentrati, muscolosi e fortemente caratterizzati dall’uso delle piccole botti di legno. Vini grossi e grassi che vogliono soprattutto impressionare mentre la loro bevibilità, passa in secondo piano.
Com’era prevedibile, questi esercizi di stile hanno provocato un’ampia resistenza, e in tempi piuttosto brevi il gusto dei consumatori si è orientato verso vini più snelli, più leggeri, insomma, vini più bevibili.
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Certo, detto così, la parola bevibilità sembra esprimere un concetto universale e quasi invariabile nel tempo. In realtà si tratta però di un concetto che nel percorso della storia, nelle diverse società e nei vari ceti sociali si dispiega in molte forme diverse. Inoltre va sempre tenuto presente che un vino, giudicato da una persona come molto beverino, potrebbe lasciare fredda e disinteressata un’altra. Viste da vicino le cose si complicano parecchio.
Ciò nonostante si può benissimo ricondurre tutto questo a una riflessione semplice. Dall’introduzione dei tre bicchieri di Daniele Cernilli fino all’ultima pubblicazione di Castagno, Gravina e Rizzari (“Vini da scoprire. La riscossa dei vini leggeri”), il nocciolo duro della questione non è cambiato molto: la domanda è non solo quanto ammiriamo un vino per le sue prestazioni, ma anche quanto ne vogliamo bere e quanto ne possiamo bere.
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Quando beviamo vino cerchiamo piaceri più raffinati rispetto a quanto troviamo in un succo di frutta e allo stesso tempo ci aspettiamo esperienze gusto-olfattive gratificanti che non stanchino il palato e lo stomaco ma ci trascinino con un’irresistibile piacevolezza verso il prossimo sorso.
Attenzione però, i campioni di bevibilità che vi propongo non sono i fratelli minori di presunti vini seri. Non si meritano un suffisso diminutivo. E anche se bevuti d’estate questi vini non sono certamente solo vini estivi o da ombrellone. Sono grandi vini. Grandi nel senso come è grande il Dio nello Zarathustra di Friedrich Nietzsche. Un Dio che sa danzare. Un Dio che danza dentro di noi.
Vinisola, A Mano Libera, Pantelleria D.O.P. Bianco Frizzante 2015
Dell’azienda pantesca Vinisola avevo già parlato lo scorso anno, presentando il loro Shalai come vino per concludere la cena di Natale. Ci ritorno volentieri. Primo, perché quest’isola, la più grande della Sicilia, è uno dei luoghi più magici delle terre sicule che potete immaginare. Secondo, perché la maestria con cui l’enologo Antonio D’Aietti valorizza lo zibbibo, l’uva autoctona per eccellenza dell’isola, mi entusiasma.
A Mano Libera è un vino della tradizione, leggermente frizzante, frutto di una fermentazione lenta. Ottenuto da uve coltivate ad alberello strisciante, la tipica forma di allevamento dell’isola, che crescono in vigneti di un’età che va da 50 a 60 anni.
Commovente vedere come tanta fatica umana si sia trasformata in un vino leggero e gioioso, un vino che alza le ali come se volesse liberarsi da tutta la pesantezza di questa terra. Salvia, albicocche mature e cenere vulcanica inquadrano perfettamente il vitigno e il terroir. Abbastanza fresco prende slancio grazie alla sua spiccata sapidità marina e le note di lime che emergono in finale. Gluck, gluck, gluck … finito.
Franz Haas, Sofi, Vigneti delle Dolomiti Schiava IGT 2016
La schiava non è un unico vitigno ma un gruppo di vitigni non imparentati tra di loro. Il nome, già usato in epoca romana, indicava probabilmente una vite legata a un palo anziché lasciata avvolgersi liberamente intorno a un albero come era d’uso frequente.
La più importante varietà è la Schiava grossa. L’azienda di Franz Haas ne ottiene un vino leggero ma allo stesso momento profondo. Vinificato in acciaio con fermentazione malolattica, offre un quadro olfattivo intrigante che include piccoli frutti rossi maturi con ciliegie in primo piano, fiori rossi macerati, viola e sentori di cacao. In bocca è abbastanza fresco ma sapido con un corpo snello che lo rende particolarmente agile nella beva.
La sua, tra le famose etichette artistiche dell’azienda, è sicuramente la più allegra. Dedicata alla figlia Sofia o Sofi, che già ai tempi della scuola materna esprimeva il desiderio di avere un suo vino.
Il Colombaio di Santa Chiara, Campo della Pieve, Vernaccia di San Gimignano DOCG 2016
Per illustrare il concetto di bevibilità la Vernaccia di San Gimignano è un ottimo candidato. Di solito non seduce immediatamente al naso. I suoi profumi si presentano spesso con una voce fine e sussurata. In passato questa sua caratteristica ha indotto molti produttori a spingere sul tasto degli amplificatori enoici, utilizzando ampiamente lo Chardonnay ed altri vitigni complementari (dal disciplinare ammessi fino ad un massimo del 15%) nonché il legno piccolo nuovo.
Una volta superata questa fase, negli ultimi dieci anni la Vernaccia da San Gimignano ha fatto passi da gigante verso una stilistica diversa, caratterizzata da eleganza e tipicità.
Lo dimostrano i vini dell’azienda Il Colombaio di Santa Chiara, che produce un vino d’annata (Selvabianca) e una riserva (Albereta), il Campo della Pieve, una Vernaccia ottenuta da un singolo vigneto. Il Selvabianca è di una freschezza più immediata, mentre il Campo della Pieve risulta irresistibilmente smaltata in bocca, grazie a un lungo affinamento sulla feccia nobile con frequenti bâtonnages.
C’è una grande coerenza stilistica tra questi vini, ma per il suo perfetto connubio tra eleganza e bevibilità vince il Campo della Pieve. Si presenta con un colore giallo paglierino cristallino e profumi di lime, frutti tropicali, zucchero filato e zagara. In bocca entra fresco e si rivela succoso e denso con una sapidità che accresce con grande dinamicità verso il finale amandorlato, che inquadra fedelmente il vitigno.
Ca’ Dei Frati, I Frati, Lugana DOC 2016
La Lugana è una piccola denominazione sul lato meridionale del lago di Garda. Il vitigno previsto dal suo disciplinare è la Turbiana. Secondo le ultime ricerche genetiche si tratta di un biotipo del Trebbiano di Soave e del Verdicchio, elencati come sinonimi nel registro nazionale delle varietà di vite.
Una delle caratteristiche più interessanti della Turbiana è il suo grande potenziale d’invecchiamento. Inoltre sopporta molto bene un affinamento in legno piccolo. Il Brolettino, l’etichetta più conosciuta di Ca’ Dei Frati, ne è un ottimo esempio. Assaggiate però prima I Frati, il vino che rappresenta al meglio il lungo impegno della famiglia Del Cero dedicato a questo vitigno.
Intensi profumi di pesca e mandorla dolce, tipici del vitigno, viaggiano insieme a note che ricordano la maracujá. L’ingresso in bocca è quasi abboccato. Seguono una rinfrescante vena acida e un finale molto sapido, un susseguirsi di sensazioni qualificanti per una straordinaria bevibilità. Davvero irresistibile.
Perfetto per una cena estiva a Sirmione con vista lago. Se non siete lì e non avete un altro lago a portata di mano godetevelo a casa o dove vi trovate. Un paio di sorsi saranno sufficienti per evocare questa splendida zona vinicola.
Girlan, 448 s.l.m, IGT Vigneti delle Dolomiti rosé 2017
La cantina Girlan è una delle realtà vitivinicole più importanti dell’Alto Adige. L’ampia gamma dei vini, una produzione di circa 1.300.000 bottiglie, e il fatto che si tratti di una cooperativa di produttori, potrebbe far pensare il contrario. Ma nel nord Italia, si sa, le cooperative non temono il confronto con le aziende a conduzione familiare.
Il 448 s.l.m. rosé è un vino ottenuto da tre vitigni, Lagrein, Pinot nero e Schiava, provenienti da zone diverse. Una parte del mosto deriva da uve diraspate che fanno una macerazione di dodici ore sulle bucce prima di essere pressate, mentre l’altra parte si ottiene da un salasso. Affinamento di cinque mesi in acciaio.
Il risultato è un vino dalla disarmante bevibilità. Un rosso cerasuolo di media intensità e molto vivace attira l’attenzione prima che profumi di fragola, ribes rosso e accenni di rosa trasmettano tutta la leggerezza del periodo estivo. In bocca entra fresco, sa di frutta rossa matura per lasciare poi la scena ad una scia sapida che domina il finale. Impossibile non svuotare rapidamente la bottiglia.