Ormai l’avrete capito: se c’è qualcosa di particolare che anima il mondo del vino, Dissapore ci si butta dentro con tutte le scarpe. E intendo proprio fisicamente, empiricamente, con la temutissima quanto schietta Prova d’assaggio. È stato così per l’hyperdecanting, per il ghiaccio nel vino e per il Barolo in vendita a 12,99 € negli Autogrill. Uno dei recenti motivi del contendere mezzo social ha riguardato la dignità dei vini dealcolati, e un primo grande traguardo è stato già raggiunto: aver unito la fazione tradizionalista e quella naturalista del vino in una unanime condanna.
Già, perché sia esso pastorizzato e microfiltrato, concentrato e barricato o ottenuto solo grazie a cornoletame, piedi nudi e lune nuove, il vino ha l’alcol, e se non c’è alcol non si può chiamare vino, e che maniere signora mia, e questo è uno scandalo bello e buono, e la nostra storia che fine fa, e la nostra tradizione dove la mettiamo.
Vino dealcolato: perché possiamo chiamarlo così
In realtà la produzione e commercializzazione di vino totalmente o parzialmente dealcolato nell’Unione Europea è stata autorizzata e normata con il Regolamento UE 2021/2117 del 2 dicembre 2021. E lo chiamano proprio ‘vino’, non ‘bevanda che una volta soleva essere vino’ e neanche ‘Giggetto’. Poi l’interpolazione di questo regolamento con la legislazione italiana sul vino è materia che lascio volentieri ai giuristi (ad oggi un vino a Denominazione di Origine non può mai essere dealcolato), ma al di là dell’infatuazione verso gli studi di legge, la critica al vino senza alcol si è per ora mossa solo sui binari della tradizione, della storia, dell’autenticità, argomenti buoni per rilasciare dichiarazioni pepate ma assolutamente privi di oggettività.
Perché, al di là di ogni speculazione filosofica, c’è una sola domanda fondamentale: ma ‘sto vino dealcolato è buono o no? Ci potrebbe essere un mondo gustativo da raccontare e di cui discorrere, ma succede sempre che il generico critico feroce non abbia mai assaggiato tale vino. E visto che a noi piace parlare solo in presenza di dati tangibili, eccoci a stappare la bottiglia di Alcohol Free Sparkling e a dirvi come è.
Steinbock, alcohol free sparkling: Prova d’assaggio
Il nome di questo spumante dealcolato è Steinbock (faticosamente reperito, a dirla tutta, e dal costo di circa 11 €) ed è prodotto dalla cantina tedesca Dr. Fischer, controllata dalla famiglia altoatesina Hofstätter, con sede nel distretto Mosel-Saar-Ruwer, un areale commovente per chi venera il Riesling. Notiamo una retroetichetta che elenca gli ingredienti, caso rarissimo nel mondo del vino: “bevanda ottenuta dalla dealcolizzazione del vino, mosto concentrato rettificato, anidride carbonica“. C’è anche una tabella nutrizionale che riporta una concentrazione zuccherina di 40 g/l, il che classificherebbe questo spumante come Demi-sec.
Il vino è stato privato dell’alcol etilico mediante distillazione sottovuoto: in pratica si pone il vino in un recipiente chiuso e si opera il vuoto arrivando a circa 0,015 bar di pressione interna (per praticità, ricordiamo che la normale pressione atmosferica è di circa 1,013 bar); a queste condizioni l’alcol etilico abbassa il suo punto di ebollizione da 79 °C a circa 25-30 °C. Lo scopo è di provare a rimuovere l’alcol dal vino cercando di mantenere le sue molecole odorose, ben sapendo che è difficile conservarle tutte ma sempre meglio che cuocere il vino a 80 °C. Durante la distillazione una quota di acqua può anch’essa evaporare appresso all’alcol, con evidente perdita di volume liquido e, per non avere una bevanda concentrata, il volume perduto deve essere reintegrato con dell’acqua in maniera, diciamo, ‘artificiale’ (chi è pratico di materie scientifiche non si scandalizza; la Coldiretti tempo fa sguainò le spade al grido di “non ci annacqueranno il vino!”). Infine, il vino dealcolato è stato poi reso spumante con l’aggiunta di anidride carbonica.
Nel calice il vino è di un giallo paglierino didattico, con bollicine fini e persistenti ed un perlage che non paga dazio nei confronti degli altri vini spumanti. Al naso lo Steinbock si esprime inizialmente su sentori che ricordano i lieviti e una mineralità descrivibile come “odore di pioggia dopo giorni di siccità” (la molecola odorosa in questione esiste: si chiama geosmina). Subito dopo emerge una nota molto intensa di cera d’api, che con l’aumentare della temperatura del vino risulta anche eccessiva e va a coprire le piccole note fruttate di pesca e kumquat. Insomma, il profumo non è spiacevole ma allo stesso modo non è equilibrato ed armonico.
È al palato che emerge l’importante problematica dello Steinbock, prevedibile a dire il vero già sul piano teorico. Ma andiamo per gradi: la sensazione tattile di cremosità è piacevole, il gusto c’è anche se non molto intenso, ma non è per nulla spiacevole. Ritorna la cera d’api, forse il limite organolettico maggiore data la sua predominanza, che accompagna delle sensazioni di cedro e limone. Il residuo zuccherino si fa sentire, così come è in evidenza una più che discreta componente acida, eppure si percepisce una tremenda mancanza di profondità. Ecco il problema: l’assenza dell’alcol si traduce in mancanza di pseudocalore nel cavo orale e la sensazione di una terza dimensione mancante.
È su questo punto in particolare che dovrà essere svolto il lavoro maggiore di perfezionamento della bevanda, tenendo sempre a mente che la stiamo paragonando a un classico vino spumante provvisto di alcol e che è a questo che vorremmo assomigliasse il più possibile. Ma anche allo stato attuale lo Steinbock risulta essere una più che gioiosa alternativa per chi volesse fare festa consentendo di brindare anche ai bambini, o alle donne in gravidanza, o a credenti di religioni che vietano l’alcol, o anche a chi per il più privato dei motivi non voglia assumere alcol ma vuole comunque godersi un calice di spumante.