I vini naturali si pregiano di un altro capitolo: l’introduzione sulla scena musicale ad opera di uno dei cantautori italiani più elitari. Nell’intervista rilasciata al Gambero Rosso, sul numero d’esordio per il nuovo direttore Marco Mensurati, Vinicio Capossela parla del suo rapporto con il vino in virtù dell’uscita del suo ultimo album. Ghiotto pretesto per l’intervista è un pensiero espresso nella canzone La Parte del Torto, dove canta di “vini naturali omologati individuali“; l’intervista risulta così meritoria della copertina sul numero del Gambero Rosso, dove si decide di celebrare i dieci anni dall’editoriale di Eleonora Guerini che tanto scalpore destò nell’agone enofilo dell’epoca.
Era il 2013 e il movimento dei vini naturali celebrava sé stesso forte della continua crescita all’interno del mondo del vino, contando sull’appoggio di un insieme umano da sempre prima dileggiato e poi blandito: i giovani. Su questo panorama proruppe come un tornado l’editoriale di Guerrini. Il pezzo diceva pressappoco questo: il termine ‘naturale’ associato al vino non può avere senso e, ferma restando la positività di un intervento umano ridotto al minimo in vigna e in cantina, l’augurio era che per i vignaioli naturali “la lucidità e l’onestà intellettuale siano tali da far scegliere, a fronte di una vendemmia traballante, di non utilizzare e non trasformare quell’uva in vino dalle volatili che sfiorano lo spunto, o dall’evidente ossidazione. Perché la scelta del bioqualcosa non credo debba mai essere quella di travestire il difetto con la scusa del “naturale”, tanto meno mi convince il mantra per cui quello dei vini “naturali” è un gusto da farsi, un percorso che necessita di tempo. Sarà ma, sempre per restare nel mondo biodinamico, non ricordo di aver mai fatto troppa fatica a comprendere i vini del Domaine de la Romanée-Conti. Sarà perché sono prima di tutto buoni?“. Concetti più che condivisibili, difatti anche noi li condividiamo.
Dieci anni dopo il Gambero trae un bilancio del periodo trascorso, intervistando diversi protagonisti della scena naturale, con ciliegina finale l’intervista a Capossela. Leggendo ci si può fare un’idea su come il vino naturale abbia ancora necessità di una narrazione per fasce d’età, non essendo superato il divario con i ‘capelli bianchi’ che disdegnano le fiere del vino naturale. Inoltre tale narrazione ha ancora bisogno, inspiegabilmente, di conservare l’allure di misticismo, la dimensione onirica (l’uso dell’anfora che “amplifica le memorie del nostro territorio” e che “cotta a legna è un’altra cosa rispetto al forno elettrico, c’è una relazione con la materia viva“).
Il bilancio è la constatazione dell’ulteriore forza acquisita, con merito, dal movimento in questi due lustri, spingendo a una riflessione sulle conduzioni agronomiche anche le aziende più convenzionali (strategia di marketing, qualcuno?). Il problema casomai è diventato un altro: l’80% dei vini italiani certificati in biologico vola all’estero, primo mercato l’Australia. Ora, non intervenire in cantina per poi far volteggiare il proprio vino sul pianeta a bordo di un jet non sembra la scelta più green che si possa fare. E cavalcare il mercato dovrà pur avere qualche paletto etico, altrimenti il discorso sulla sostenibilità potrebbe perdere valore.
Ma veniamo a Capossela. Il fulcro della sua intervista, mediaticamente vincente, risiede nella parafrasi di Ginsberg: “ho visto le menti migliori della mia generazione perdersi nel nettare dei vini naturali mentre intanto l’estrema destra si prendeva l’elettorato e il Paese“. La frase è il sigillo su un pensiero più profondo, dove la sinistra radical chic è dipinta come imperniata sui suoi cliché, con il solo effetto di allontananarla dal popolo. E se l’aggettivo ‘profondo’ vi sembra ironico, be’ lo è.
La riduzione a radical chic di chi “si imbelletta di cultura“, stia attento solo alle peculiarità del bel vivere e si mostri indifferente verso quelli che non arrivano a fine mese, è vecchia e banale (tanto quanto il termine radical chic): è un’identificazione molto superficale dell’essere umano di sinistra come “acculturato, sofisticato, ricco e distante”. Caratteristiche queste che, al metto della ricchezza di cui poco ne so e di cui poco me ne tange, accolgono tranquillamente lo stesso Capossela. Ma ancora peggio è il pensiero “[…] quel discorso di attenzione all’ambiente, al cibo e alla natura che solo chi ha un certo reddito si può permettere“, mirabilmente in linea con la falsa convinzione che oggi non si possa mangiare sano e pulito se non si ha il reddito di Briatore o un orto privato. Pensiero molto istituzionale di questi tempi (qualcuno ha seguito la bagarre su Benedetta Rossi?) che coccola le opinioni della Coldiretti, a baluardo nella difesa di beni essenziali come ad esempio l’insalata chiusa nella plastica.
Astraendoci dalle idee politiche, è certo che Capossela possiede una ridotta visione enologica. Definitosi amante del vino naturale, mi va a cadere nei soliti cliché (questi sì) di chi beve tali vini: un sentimento verso i difetti giustificato con la naturalità del processo, un’abitudine a questi che non può trovare giustificazione in chi ama il buono. “Il vino naturale richiede anche una capacità di accogliere il difetto che fa parte della natura. […] Mi rendo conto che ci vuole una abitudine e forse anche una rieducazione al gusto“.
Ecco, no. Ma proprio no. Il difetto è un difetto, e nella tanto idealizzata natura una pianta difettata non campa a lungo. Sarebbe perciò il caso di arginare una volta per tutte quest’accoglienza benevola del difetto: il vino è un atto dell’uomo, non della natura, e l’uomo ha sempre studiato e combattuto affinché qualsiasi difetto fosse minimizzato o superato. Guardare con favore ai difetti dà solo la misura di una sostanziale pigrizia, nel produrre come nel degustare il vino. Per cui vada per la rieducazione al gusto, con l’auspicio di vedere consumatori sempre più esigenti e severi verso vini non prodotti a regola d’arte; soprattutto perché esiste chi, lavorando naturalmente, vinifica senza difetti; a meno che non vogliate considerare persone come, per dirne uno, Stefano Amerighi delle divinità pagane.
Insomma, nell’analisi socio-poiltico-enologica di Vinicio Capossela sono molti i passaggi traballanti. Su di uno però ci ha preso: il fatto che “[…] in questo momento la quasi totalità della nostra socialità passa dal food and beverage. Si esce fuori o si sta a casa sostanzialmente per mangiare, come fosse l’unica cosa che conta“. Questo è un’aspetto centrale delle relazioni umane in epoca contemporanea in Italia. Un aspetto che è già stato magistralmente analizzato qui da Lavinia Martini qualche tempo fa. Il che significa una cosa sola: Vinicio Capossela legge Dissapore. Qualora volesse siamo disposti a renderlo edotto riguardo magnifici vini naturali privi di difetti. Ma il conto è a suo carico.