Ogni giorno, nel mondo, si bevono circa 2,16 miliardi di tazze di tè, 25.000 al secondo. Numeri impressionanti, quasi non calcolabili. A ben pensarci, il tè è diffuso e permesso praticamente ad ogni latitudine, radicato in moltissimi costumi, bevuto praticamente dai fedeli di ogni religione: una tazza di tè non è vietata a nessuno, pare. Siamo abituati comodi, noi, a comprare pacchetti di bustine al supermercato da mettere in infusione. I più arditi si rivolgono sicuramente ai tea shop di fiducia, che spacciano tè in foglie con dovizia di particolari. Altri ancora si dedicano al consumo di tè da commercio equo e solidale, visto che le monocolture sono una gran bella gatta da pelare.
Molte cose girano intorno al tè, ma non solo al giorno d’oggi: il tè è stato merce di scambio per molti secoli. Variegata ed affascinante è la storia del tè. Cercheremo di ripercorrere insieme le tappe principali, senza la pretesa di essere troppo esaustivi, con l’intento di darvi un affresco su una delle bevande più affascinanti e documentate che ci siano.
Shen Nong e la tazza di tè
2737 a.C. , Cina: la leggenda trasmette il nome del mitologico re Shen Nong come “inventore” del tè (tra le molte cose, a questa figura si attribuisce anche la “scoperta” dell’agricoltura). Il re era assorto nelle sue meditazioni giornaliere sotto un albero quando, grazie ad un soffio di vento, alcune foglie caddero nella sua tazza di acqua bollente. Shen Nong, che tra le altre cose era (giusto per caso, eh) un esperto erborista, decise di provare questo infuso profumato. Lo chiamò quindi cha.
La controparte indiana della leggenda narra che il tè fu importato in India dai viaggi del Bodhidharma, patriarca del buddhismo indiano, dopo i suoi pellegrinaggi.
Facile capire come la storia del tè, al netto delle leggende, si perda nei meandri del tempo. L’unica cosa certa sembrerebbe essere la diffusione di questa bevanda nel continente asiatico svariati secoli prima rispetto al suo arrivo in Occidente. La società cinese arcaica (così come la sua lingua) era una società ieratica, basata su uno strettissimo rapporto col divino: si leggeva il futuro nelle viscere degli uccelli, così come anche nei fondi del tè, la cosiddetta tasseomanzia. Con ogni probabilità, veniva usata come bevanda taumaturgica oppure come modo di connessione con il divino: la società cinese si fondava su un modello ieratico, di forte contatto o presunto tale con il divino. Su questo contatto, si basava più o meno tutta la vita della comunità, soprattutto a Nord, dove lo sviluppo fu più lento ed ostico.
Le foglie di tè venivano pressate fino ad ottenere dei panetti; successivamente, questi panetti venivano applicati localmente per i dolori reumatici oppure di nuovo sminuzzati, fino a ridurli in polvere, per creare infusi. A questi infusi spesso venivano aggiunte spezie varie oppure, come nel caso delle popolazioni mongole, del burro per renderle nutrienti.
Storicamente parlando, resti di tè sono stati trovati nelle tombe risalenti alla dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.); il ruolo centrale del tè nella società cinese lo si vedrà poi sotto la dinastia Tang (618-906) ed in particolare con il 茶经, chájīng , il “Canone del tè” ad opera di Lu Yu: quest’opera è di fondamentale importanza non soltanto per la cultura orientale, ma per il mondo intero: infatti, grazie al Canone del tè, questa bevanda acquista dei connotati sociali e culturali ben precisi. Viene messo per iscritto come fare un cerimoniale del tè, come esso può cambiare a seconda del ceto sociale protagonista, gli strumenti da utilizzare. Il Canone diventa così importante che viene addirittura consigliato di trascriverlo su rotoli di seta ed appenderlo sulle pareti, per non dimenticare la sua ripetizione quotidiana: chiunque aspirasse a diventare un mandarino dell’Impero
Il “salto” dal continente al Giappone del tè avvenne grazie all’intermediazione dei monaci buddhisti; questi, sovente, intraprendevano lunghi viaggi alla ricerca dei luoghi del Buddha e ritornavano in patria (quando ritornavano… ) con un bagaglio di conoscenze decisamente più ricco. La bevanda si diffuse molto presto in Giappone, trovando un graditissimo riscontro.
Dal chá al tè
La questione linguistica intorno al tè ci dice molto della sua diffusione in Cina e nel resto del mondo. Il carattere per indicare la bevanda, in Cina, era ed è 茶, che può essere letto in due modi differenti: si legge chá in cinese mandarino (la lingua comunemente parlata), mentre si legge tey in dialetto Min meridionale (uno dei tanti dialetti presenti in Cina). Possiamo notare come tey sia particolarmente vicino al nostro tè (e varianti delle lingue neolatine, come il francese thé e l’inglese thea, lo spagnolo té): questo dipende molto da ciò che accadde con gli esploratori europei venuti a contatto con la Cina durante la Dinastia Qing (dal 1644) sulle coste di Xiamen, dove era diffusa appunto la pronuncia teé. I portoghesi, che a lungo sono stati in territorio cinese, continuano a chiamarlo chá.
Il primo tè europeo
Dobbiamo aspettare almeno il XVI per trovare alcune tracce del tè in Europa, sebbene frammentarie ed incomplete. I portoghesi portarono la bevanda nel Vecchio Continente, essendo loro impiegati nel commercio con le colonie; oltre questi, centrale fu il ruolo dei missionari gesuiti. Alla fine del Quattrocento, l’umanista e geografo veneziano Giovan Battista Ramusio, accenna del tè in una lettera: un mercante arabo gli avrebbe infatti parlato di una bevanda “miracolosa” chiamata chai. Il missionario sinologo Matteo Ricci, veneziano anch’egli, ne portò altre notizie della sua diffusione in Giappone, nei primi anni del Seicento.
Insomma, c’era curiosità nei confronti di questa bevanda: i portoghesi, viaggiatori prima e colonizzatori poi, ne portavano in patria per degli assaggi. Furono gli olandesi, però, ad importare per primi il tè destinato alla vendita. Essi, infatti, iniziarono ad intralciare le rotte commerciali dei portoghesi, stabilendosi sull’isola di Giava. Nel 1606, il primo carico di tè salpò dalla Cina verso l’Olanda. Il tè divenne presto una bevanda alla moda, ma il costo elevato dell’importazione lo rese reperibile soltanto dalle classi agiate ed alle corti.
Sua Maestà sulle rotte del tè
Nel 1658, una pubblicità su un quotidiano londinese così titolava: “China Drink, called by the Chinese, Tcha, by other Nations Tay alias Tee“. Da quel momento in poi, il destino britannico sarà spesso intrecciato con quello cinese prima, indiano poi.
Sicuramente, già agli inizi del secolo i marinai della British East India Company portavano il tè come regalo di ritorno a casa. Data la sua posizione effettivamente defilata rispetto alla scena europea, ci mise un po’ ad attecchire questa nuova moda.
Un grande impulso alla diffusione del tè lo diede un matrimonio reale: Charles II si sposò con Caterina di Braganza, una principessa portoghese già molto avvezza alla cultura del tè (come abbiamo visto prima, i portoghesi conobbero il tè probabilmente molto prima di tutti gli altri). Come spesso capita anche oggi, la Corona dettò la moda: fu così che i ceti abbienti ebbero la possibilità di avvicinarsi al tè e la Compagnia delle Indie Orientali iniziò, verso la fine del secolo, a fare le prime importazioni dall’isola di Giava.
Da quel momento, le rotte del tè si incontreranno molteplici volte con quelle degli imperi coloniali, diventandone pedine ambite. Nel frattempo, la società inglese andò modellando i suoi usi intorno al tè: gli uomini solevano bere tè nei locali pubblici, le donne a casa. Le foglie di tè erano soggette a molte tassazioni, in modo tale da scoraggiarne il consumo nelle fasce più deboli. Tanto che nacque il contrabbando delle foglie di tè e la contraffazione delle stesse, adulterandone piccole quantità con (addirittura!) sterco di topo. Tutto ciò fin quando non arrivò al Ministero William Pitt il Giovane, che abbassò le tasse sul tè vertiginosamente ottenendo la fine quasi immediata del contrabbando ed una popolarità notevole.
L’introduzione del tè fu anche una piacevole variazione alla monotona gastronomia inglese. Molti dolci nacquero, appunto, per “supportare” la bevuta del tè e rendere il momento piacevole e goloso: parliamo dei muffin, degli scones e di altri dolci ancora oggi diffusi in tutto il mondo anglosassone.
Un impero costruito sul tè
Il Regno Unito non controllava soltanto le quote di tè che arrivavano in Inghilterra, ma anche quelle delle colonie oltreoceano. Il tè, infatti, era diffuso nelle colonie tanto quanto nella madrepatria, con tassazioni altissime. La Compagnia delle Indie Orientali era l’unica a poter importare il tè nel Nuovo Mondo, sempre passando attraverso l’Inghilterra. Nel 1773, i coloni si ribellarono e compirono il cosiddetto Boston Tea Party, cioè assalirono le navi della Compagnia nel porto di Boston, gettandone le casse di tè nelle acque.
Fino al 1834, non ci furono grandi scossoni: la Compagnia delle Indie Orientali deteneva il monopolio sul tè importato dalla Cina, ma nacque anche l’esigenza di coltivarne di proprio, magari proprio in una delle colonie. Fu così che venne scelta l’India, Paese affine al tè ma che fino a quel momento non aveva visto grandi coltivazioni. Dopo diverse prove, si iniziò ad importare tè dall’India in quantità fino a cinque volte maggiori rispetto a quelle importate dalla Cina.
I consumi di tè schizzarono alle stelle: se prima ogni britannico consumava circa 1 chilo di tè all’anno, grazie ai ribassi, ora consumava quasi 3 chili di tè. All’inizio del Novecento, la maggior parte del tè proveniva da Celyon e dall’odierno Sri Lanka.
Il tè oggi
Oggi, l’accesso al tè ed il consumo dello stesso è molto facilitato, soprattutto nella parte di mondo più ricca: il tè è facilmente reperibile al supermercato, nei tea shop dedicati oppure online. Se ne trovano di diversi prezzi e, conseguentemente, di diverse qualità: il prezzo comunque non scende sotto i circa 60 euro al chilo per il comune tè da supermercato venduto in bustine, 50 grammi il pacchetto.
Gran parte del merito di questa diffusione capillare appartiene all’invenzione delle bustine monodose di tè, quelle pronte per l’infusione. All’inizio del Novecento, il commerciante newyorkese Thomas Sullivan iniziò a porzionare il tè in sacchetti di seta, più economici e pratici delle scatole di metallo. I clienti di Sullivan fecero il resto: iniziarono ad immergere direttamente il sacchetto nella tazza, in modo tale da avere una infusione rapida e senza spreco. Successivamente, i sacchetti di seta divennero di garza, fino a passare a quelli odierni.
Le monocolture di tè, di retaggio coloniale, continuano ad essere un problema: inoltre il tè da monocoltura cresce in una maniera innaturale, da arbusti su terrazzamenti, impoverendo il terreno. Attualmente, le grandi catene commerciali sottoscrivono periodicamente dei patti per un acquisto consapevole di queste materie, ad un costo che cerca di non ledere nè i lavoratori, nè la materia prima.