Dalla riscoperta ed evoluzione delle fermentazioni nei ristoranti ispirati dalla New Nordic Kitchen, ai sempre più frequenti riferimenti nella cultura pop, i gastrofregni più attenti avranno sentito che qualcosa si muove. Appare nelle degustazioni al calice, nelle serie televisive e pure nei cartoni animati, occhieggia dalle bacheche dei praticoni annoiati dal lockdown, meglio se già versati in di qualche tipo di fermentazione: il kombucha sta arrivando. O meglio, sta tornando, data la storia che lo precede.
Per i non iniziati, il kombucha è una bevanda lievemente alcolica (difficilmente raggiunge l’1% spesso nemmeno lo 0,5%) a base di tè e zucchero, fermentata attraverso una madre di cellulosa simile a quella dell’aceto, denominata SCOBY. Si tratta dell’acronimo di “Symbiotic Culture of Bacteria and Yeast”, coltura simbiotica di batteri e lieviti, ed è responsabile sia delle proprietà probiotiche che dell’alone mistico che circonda il prodotto.
Negli stati uniti la crescita è esponenziale ed è naturale pensare che qui in Italia, dove già qualcosa inizia a muoversi, manchi veramente poco al momento in cui l’intellighenzia gastronomica potrà dire di esserne già annoiata. Non fatevi trovare impreparati dal futuro: eccovi un Bignami sulla storia della vostra prossima bevanda preferita. Forse più che di storia sarebbe meglio parlare di uno zibaldone di aneddoti, di racconti che vanno dall’esotico allo strampalato che iniziano quasi 3000 anni prima di Cristo e acquistano valenza storica non prima del 1890 senza risparmiarsi niente, tra imperatori, guerre, catene di sant’Antonio, interventi soprannaturali e Renato Carosone. Una caotica coltre di mistero che certamente contribuisce al fascino della bevanda.
La leggenda più diffusa: l’imperatore Qin
Il 221 avanti Cristo, anno in cui la dinastia Qin si insedia al trono imperiale cinese è spesso indicato come l’anno di nascita del kombucha. Non ci sono ovviamente dati certi che indichino con assoluta certezza la Cina come luogo d’origine della bevanda, ma il consumo di alimenti fermentati ha sempre fatto parte della sua cultura gastronomica e il consumo di tè sembra nato qui, giusto un paio di millenni e rotti prima, per cui gli appassionati tendono a concordare. Fu una foglia svolazzante a mo’ di piuma di Forrest Gump che, posandosi su una pentola d’acqua bollente, permise all’allora imperatore Shen Nong di scoprire quella che sarebbe diventata la bevanda più consumata al mondo.
Ma torniamo alla dinastia Qin e all’imperatore in carica Qin Shi Huangdi: la leggenda narra che fu lui per primo a produrre e bere quello che veniva definito “il tè dell’immortalità”, mantenendolo giovane e in salute. Certo, avrete capito che agli imperatori venivano attribuiti fin troppi meriti. È lecito dubitare del fatto che Shen Nong amasse aggirarsi per i giardini imperiali bollendo acqua e probabilmente il merito per la scoperta del kombucha va alla sconfinata conoscenza delle erbe dell’antica medicina cinese, così come la padronanza, pur se empirica e alchemica, dei processi di fermentazione.
Dr. Kombu e le alghe
Chiunque abbia nelle orecchie quel minimo di terminologia giapponese imparata sui menù dei ristoranti, può improvvisarsi traduttore: kombucha significherebbe = kombu (l’alga alla base dell’umami nella cucina del Sol Levante) + cha (tè). La “madre” da cui si fermenta il kombucha è quindi un’alga?
No, il termine “kombucha” deriva da un’altra leggenda secondo cui un fantomatico dottore koreano, tale Kombu appunto, introdusse la bevanda alla corte dell’imperatore Giapponese nel 414. È evidente come “Kombu” non suoni affatto come un cognome coreano, ma nel Nihongi, o annali del Giappone, si fa riferimento ad un medico koreano dal nome decisamente similare, Kon-mu. Che sia lui il responsabile?
Resta il fatto che la confusione tra lo SCOBY e un’alga è durata per secoli, e certo questo problema di traduzione non ha aiutato a fare chiarezza. Ovviamente anche questa storia ha una sua aneddottica, la “Leggenda del tesoro del mare”. Secondo questa versione, il kombucha proviene dalle zone intorno al mare di Bohai, dove era noto come come “fungo del mare” o, appunto, “tesoro del mare”: in una farmacia locale un commesso distratto fece cadere dell’acqua e del miele in un vaso che aveva contenuto vino, fornendo quindi in maniera fortuita alimento a una coltura di lieviti e batteri. Si formò una pellicola biancastra e appiccicosa, che può essere considerata il primo SCOBY. Viene da una regione marittima e ha l’aspetto di filamenti che ondeggiano nel liquido: il fraintendimento con le alghe è tutto qui.
Tempi moderni
La guerra russo-giapponese (1904-1905) sembrerebbe la responsabile dell’arrivo del kombucha in occidente, anche se i primi studi scientifici, seppur russi, sono precedenti, del 1890. È l’anno in cui il Dr. Nikolay Vasil’evich Kirilov, ne porta un carico dal Tibet alla Siberia, per sperimentarne gli effetti benefici sugli anziani.
Nel 1913 il suo collega A.A. Bachinskaya pubblica il primo studio microbiologico sull’argomento, e in quell’anno e nel 1915 iniziano gli studi in Germania. Se la Prima Guerra Mondiale sarà ulteriore veicolo di diffusione del kombucha portandolo, nel 1917, fino negli stati uniti, la Seconda ne cancellerà quasi l’esistenza: il razionamento alimentare rende lo zucchero, necessario per la fermentazione, un bene di lusso.
Stu Fungo Cinese
19 Dicembre 1954: la “Domenica del Corriere” dedica la sua copertina al cosiddetto “fungo cinese”. Sono altri tempi in cui la rappresentazione degli stereotipi razziali non creava grossi scandali, e il sinistro ritratto (tratteggiato dallo storico illustratore Walter Molino) del Mandarino che porge un’ampolla di un misterioso intruglio fa sembrare l’interpretazione di Tomas Milian in “Delitto al ristorante cinese” roba da Saturday Night Live.
Ma tant’è, il kombucha conquista le prime pagine ed è un fenomeno pop talmente diffuso che anche la superstar della canzone italiana, Renato Carosone, gli dedica una hit: “Stu fungo cinese”:
E’ giunta la Pechino
int’ ‘a ‘nu vaso
‘na cosa misteriosa.
Nun c’è bisogno cchiù di medicine,
l’ha detto un mandarino
che l’ha purtata ccà!
Una vera fissa che non ha mancato di suscitare la solita ridda di polemiche più o meno informate da parte delle varie testate giornalistiche. Ecco una rapida rassegna stampa:
La Provincia di Cremona, 17/10/1954 era scettica: “Il fattore di maggior efficacia nella cura con the del fungo miracoloso è la suggestione, la quale può operare quei miracoli che invano chiederemmo a medicamenti ben più efficaci di questo cattivo aceto.”
La Stampa del 29/12/1954 denuncia una crescente aura di superstizione intorno al fungo d’oriente: “[…]così si è creata una fosca leggenda. Secondo alcuni, i funghetti che nascono sono inviolabili: essi non devono essere distrutti né gettati via, altrimenti gravissime disgrazie cadranno sul responsabile della devastazione e su tutta la sua famiglia.”
Il Corriere d’Informazione del 22/01/1955 riporta che c’è scappato il morto: “Un morto è vero, c’è stato, e la sua fine l’ha causata il fungo cinese. Di funghi cinesi egli però ne ha mangiati cinque, gettando il tè nel lavandino. Ha mangiato, chi dice crude, chi dice cotte a bagno-maria cinque di quelle muffe grigiastre e sfrangiate, quando avevano già raggiunto proporzioni considerevoli. La morte seguì improvvisa quindici ore dopo un benessere generale che aveva del miracoloso.” Va da sé che, per quanto lo SCOBY sia assolutamente commestibile (anzi apprezzato dagli appassionati che gli hanno dedicato arditi ricettari), la pratica di ingozzarsene senza tra l’altro avere idee delle condizioni in cui fosse mantenuto non è proprio brillante.
Ma come si era arrivati a questa kombucha-mania ante litteram? O meglio, come ci era arrivato il primo SCOBY in Italia? Sembra che il merito sia di una contessa di Torino la quale, da buona nobildonna sabauda, si era recata in Portogallo in visita alla famiglia reale dei Savoia che si trovava in esilio a Cascais. Esotismo, nobiltà, mistero: c’erano tutti gli ingredienti per conquistare il pubblico italiano che però, con la stessa rapidità con cui si era affezionato al fungo cinese, lo abbandonò e nel 1955 inoltrato non sembra essercene più traccia nelle cronache del Bel Paese.
Ritornerà nella prima metà degli anni 90 sotto il nome di “alga del Nilo” (aridaje), e la forma di una catena di Sant’Antonio: i “figli” naturalmente prodotti dagli SCOBY durante la fermentazione dovevano essere regalati ad amici e familiari (“congiunti” diremmo oggi in fase-quasi-2) e le madri essiccate ed usate come strumenti di vaticinio. Una moda anch’essa talmente diffusa da guadagnarsi nuovamente le copertine dei magazine.
Lo sguardo pietoso di Giulia Fossà rende futile ogni commento, ma per completezza di cronaca posso confermarvelo: quella specie di cialda marroncina non è uno SCOBY sano, doveste incappare in un obbrobrio del genere fategli prendere la via dello scarico senza troppe cerimonie.
The Kombucha Files
Ok, preparate i vostri migliori scolapasta da battaglia, belli isolati con la stagnola per meglio proteggervi dai complotti rettiliani e dalle radiazioni del 5G. Perché la risposta sulle origini del kombucha potrebbe essere quella preferita da Roberto Giacobbo, che già con l’alga d’Egitto ci sguazzava. Pronti?
È la comunità hippie americana, in cui il kombucha ha trovato nuovo terreno fertile per diffondersi dagli anni 60 soprattutto in California dove era stato ribattezzato “Groovy Tea”, a fornire le spiegazioni più esoteriche e soprannaturali sulla storia della bevanda, sempre accompagnate da numerose testimonianze di guarigioni miracolose dalle malattie più svariate. Portavoce di questo movimento sarà Betsy Pryor, autrice del libro “Kombucha Phenomenon: The Miracle Health Tea”, che fa spesso riferimento alle origini divine o extraterrestri della bevanda, e che afferma di “sentire cori di piccole voci sopra la mia testa” in presenza di SCOBY. Sarà anche colei che regalerà la prima coltura a Lorraine Dave, segnatevi questo nome.
Fosse vero che la madre del kombucha ci è stata donata dagli antichi astronauti, allora il cerchio si è chiuso perché allo spazio ha fatto ritorno. L’Agenzia Spaziale Europea ne ha infatti portato una coltura sulla Stazione Spaziale Internazionale per esperimenti sui minerali lunari e potenziale vita extraterrestre.
Big Money
Ricordate Lorraine Dave? Suo figlio George Thomas, in arte GT, racconta di quando a 15 anni ha iniziato a produrre i primi kombucha ispirato dalla storia di sua madre che dichiarava di berne in quantità mentre era sottoposta a terapia per un cancro al seno. Nel 1995 nasce GT’s Kombucha, azienda che oggi si aggira sul valore di 900 milioni di dollari, presidiando saldamente il 40% del mercato statunitense. Nel caso questi numeri non vi abbiano ancora convinti del fatto che il kombucha non sia più solo lo strambo trastullo di qualche hippie arricchito, l’ultima pietra miliare della sua storia risale al 2016: il gruppo Pepsi Co. acquista la Kevita, produttore del magico tè fermentato per la bellezza di 200 milioni di dollari.
[Fonti: kombuchakamp, Storie Meneghine, queryonline, Stannah]