Barbuti baristi in camicia e bretelle, strani alambicchi e liquidi fumanti che evocano microluoghi spersi nella biosfera. Nella raccolta dei luoghi comuni probabilmente questa è una delle immagini che stiamo associando allo Specialty Coffee. Ecco, questa è un’idea un tantino distorta e imprecisa della faccenda, ma io sono qui per fugare ogni dubbio. Oggi tenterò di spiegarvi, definitivamente, che cos’è.
Dunque, a cosa si riferisce esattamente il termine “Specialty Coffee”? Spoiler: al caffè verde di varietà arabica, selezionato in base alle peculiarità sensoriali della drupa, quindi del terroir di provenienza, e considerato di qualità superiore secondo un protocollo di valutazione internazionale.
Insomma lo Specialty coffee non è un un modo di intendere il caffè per cui la moka è superata e si filtra tutto (le estrazioni “alternative”, o almeno quelle che noi italiani percepiamo come tali, sono tipiche dello specialty perché in alcuni casi esaltano meglio le caratteristiche aromatiche degli stessi, ma non è un dogma) e nemmeno un rigurgito anti-tradizionalista, anzi, è quanto di più rigido, nel bene e nel male, possiate immaginare: un sistema di valutazione della filiera del caffè che si prefigge lo scopo di stabilire cosa è eccezionale (aka Specialty) e cosa non lo è, in base a un protocollo internazionale che vi illustrerò.
Partiamo dall’inizio, e cioè da Erma Knutsen, torrefattrice americana che nel ’74 coniò la definizione per classificare quei caffè “speciali” che provenivano da zone geografiche in qui il microclima aveva un impatto significativo sulle proprietà sensoriali del chicco. Il terroir che si palesa nella drupa. Questo assunto fu alla base di ciò che avrebbe definito e che, in buona sostanza, sintetizza anche oggi il concetto di “Specialty Coffee”: drupe selezionate in base alle loro caratteristiche sensoriali, evidentemente prive di difetti e cariche di pregi, in determinate zone. Processate e servite per valorizzare il terroir di cui sopra.
La definizione assume oggi un significato più ampio, in cui processo e servizio hanno un ruolo determinante, insomma non basta saper selezionare qualcosa di speciale se poi non lo sai tostare e servire, ma nella sostanza appare evidente che il punto cardine sia proprio riconoscere la qualità del chicco, perché proprio quella sarà indispensabile per definire quel chicco speciale o meno, farlo entrare in determinati canali di vendita e a determinati prezzi. Ma chi seleziona questi chicchi? E con quale metodo?
Cupping (alla brasiliana): il metodo internazionale di valutazione del caffè
Il viaggio del chicco dalla piantagione alla tazza è parecchio lungo e molti sono gli attori coinvolti: agricoltore, selezionatore di caffè verde, importatore (spesso sono la stessa persona), trader, torrefattore, tutti devono parlare la stessa lingua, soprattutto se si tratta di valutazione sensoriale. Il cupping nasce proprio con l’intento di fornire un metodo e un vocabolario univochi.
La “brasiliana” si riferisce appunto ad un procedimento di estrazione del caffè e di conseguente assaggio, che provo a sintetizzare: il caffè verde viene tostato nelle 8 – 24 ore precedenti l’assaggio. Viene macinato al momento e sul macinato fresco si fa una prima valutazione sensoriale dell’aroma. Si passa poi all’infusione, quindi si macina il caffè e si porta in tazze a cui sarà aggiunta acqua calda. Tostatura, granulometria, pesi e temperature rispondono a standard definitivi dal un protocollo.
Dopo averlo fatto decantare per alcuni minuti, si rompe con un cucchiaio apposito la cosiddetta “crosta” che si forma in superficie, mescolandola, spostandola su un lato della tazza e annusando contemporaneamente il corredo aromatico che si sprigiona. Dopo aver rimosso la crosta si passa all’assaggio e alla valutazione di caratteristiche gustativo/tattili quali acidità, dolcezza, amaro, corpo, persistenza, ecc.
Un campione -degustato alla cieca da un panel composto da almeno 3 assaggiatori accreditati- è costituito da 5 tazze, ciò significa che ogni assaggiatore dovrà valutare il contenuto di ogni singola tazza e fare una media mentale per ogni descrittore, prima di poter riportare i valori in una apposita scheda di assaggio. Ad ogni descrittore della scheda va attribuito un valore numerico. Dalla somma dei parziali si otterrà il punteggio finale e, proprio in base a questo punteggio, sapremo se il caffè esaminato rientra o meno tra gli specialty.
Eccovi i “cup score”*:
90-100: Eccezionale – Specialty
85-99.99: Eccellente – Specialty
80-84.99: Molto buono – Specialty
< 80.0: Non Specialty
* Non sempre i cup score sono assegnati da q-grader, gli assaggiatori accreditati sopracitati, in alcuni casi il punteggio è frutto di un’auto-valutazione che il torrefattore stesso si assegna. In questo secondo caso la professionalità del roaster sta nell’esplicitarlo.
Chi definisce i parametri di valutazione?
Dal ’96 l’organismo di riferimento è il Coffee Quality Institute (CQI)associazione non-profit nata per fornire supporto tecnico (in ricerca e sviluppo e controllo qualità) alla Specialty Coffee Association (SCA), altro attore protagonista in fatto di cultura e commercio di caffè specialty. Entrambe agiscono come “forze unificanti all’interno dell’industria del caffè specializzato” e lavorano per migliorarlo, promuovendo una comunità globale e elevando gli standard in tutto il mondo, attraverso un approccio collaborativo. Entrambe supportano lo specialty coffee per renderlo un’attività fiorente, equa e sostenibile per l’intera filiera.
Questo in sintesi il manifesto delle due associazioni, con le specificità del caso. L’area formativa è una parte predominante dei servizi promossi da entrambe, in particolare a CQI è affidato il compito di formare i cosiddetti Q-GRADER, persone che dopo lungo e sudato training, potranno essere impiegati nella selezione e valutazione sensoriale del caffè, anche e soprattutto di quelle drupe in odore di santità specialty.