A Torino, dall’altroieri e per tre settimane, è stata impiantata in riva al Po una roba che si chiama Makr Shakr Robotic Bar ed è un bar in cui al posto del barman ci sono due braccia meccaniche, tipo quelle che assemblano la Cinquecento, che ti fanno il cocktail.
I vari assessori cittadini appassionati di tecnologie –domenica per la prima volta a Torino si festeggerà il patrono, San Giovanni, non con fuochi d’artificio ma con droni luminosi– dicono che è una figata, che è una “soluzione innovativa”, un’”avanguardia tecnologica” e cose del genere.
L’ambaradan in questione è stato disegnato dallo studio dell’architetto Carlo Ratti Associati ed è stato sviluppato nientemeno che con il Senseable City Lab del Massachussett Institute of Technology.
[Ho visto il futuro della pizza, era fatta da un robot]
A dire il vero, era già stato presentato l’anno scorso, sempre a Torino, in piazza Vittorio.
Allora. La cosa è anche divertente. E scenografica. E curiosa. E deliberatamente notiziabile.
Magari non esattamente un’”avanguardia tecnologica” –visto che i robot operano a cuore aperto, quindi fargli fare un Manhattan non sarà esattamente un grande passo per l’umanità– ma una cosa simpatica quella sì.
Insomma: una trovata comunicativa.
Tuttavia, se parlassimo sul serio, mi toccherebbe impuntarmi: se c’è una cosa che non mi dovete toccare è il barista.
Il barista non si tocca.
[Il primo barista robot del mondo lavora al Cafè X]
Un locale senza bartender non mi interessa affatto, come un ristorante senza cuoco, un teatro senza attori, un concerto senza musicisti.
I robot vanno benissimo per montare il computer con il quale sto scrivendo, anche per fare le mozzarelle.
Ma se devi raccontare a qualcuno che la fidanzata ti ha lasciato e che vuoi bere per dimenticare, non c’è destinatario migliore di un barman in carne e ossa.