È stata grande l’attesa per la puntata di Report del 18 febbraio, dove il comparto del vino sarebbe nuovamente finito sotto i riflettori. Con ancora addosso l’irritazione dell’inchiesta di dicembre, causata soprattutto dalle numerose inesattezze mandate in onda, i solitamente sonnacchiosi profili social dell’enoismo italiano sono imbizzarriti come dei mustang sotto anfetamine alla comparsa delle sole anteprime della puntata.
Ieri sera la puntata è andata in onda e, se volessimo ridurla drasticamente a un solo periodo, si potrebbe dire: i vini italiani venduti dalla GDO da 3 euro non sono vini di qualità. Mi aspetto un sarcastico “ma dai, chi lo avrebbe mai detto” a corredo. Giova quindi riportare i dati forniti dal sito “I numeri del vino”: nel 2023 sono stati 7,4 i milioni di ettolitri acquistati dagli italiani nei supermercati della grande distribuzione, per un valore complessivo di 3020 milioni di euro. Il dato interessante è il prezzo medio al litro: 3,7 euro. Vini che non finiscono nelle guide di settore, che non raccontano il territorio, l’annata, la cultura e le tradizioni italiane; vini che potrebbero far domandare come si riuscirà mai, con un costo così basso, a coprire i costi di bottiglia, tappo, etichetta e distribuzione (e non ho citato il vino stesso). Sono i vini più soggetti all’”operato dell’enologo” per renderli sorbibili. Enologo che agisce nella maggior parte dei casi secondo un regolare protocollo, usando tutti gli additivi (brutti, sporchi e cattivi; in una parola: chimici) concessi dalla legge. Poi c’è purtroppo la percentuale restante, che per ottenere profitto ricorre anche a pratiche fraudolente, come quelle mostrate da Report.
Caso emblematico è quello dell’azienda imbottigliatrice Losito e Guarini, 25 milioni di bottiglie prodotte l’anno, sospettata di aver riversato in un unico serbatoio vini provenienti da uve bianche diverse, tra le quali Sauvignon Blanc e Riesling (pronunciato dal giornalista “raisling” per ben tre volte, ferendo a morte tutti gli amanti di quest’uva), per poi imbottigliare la massa risultante etichettandola ora come Sauvignon, ora come Riesling, ora come altro vino varietale.
Era evitabile la digressione sull’uso dei lieviti selezionati, brevettati e venduti dalle “multinazionali” (ma che fai, non ce lo piazzi questo aggettivo?), che a detta del vignaiolo Pietro Riccardi renderebbero identici vini provenienti dalla stessa uva cresciuta in diverse parti del mondo, annullando l’effetto del terroir.
Ribadiamo ció che ha già affermato a Report Riccardo Cotarella, presidente di Assoenologi, che ha affrontato l’intervista con la pacatezza di Rambo quando torna a Hope dopo che gli è stato comunicato con l’esplosivo di non essere persona gradita: i lieviti convertono gli zuccheri in alcol, nulla di più. Essi non ‘creano’ gli aromi, ma liberano solo quelli già presenti nell’acino d’uva, agendo sullo zucchero cui sono legati.
In realtà qualche estere si crea in fase fermentativa (il principale è l’acetato di isoamile, dall’aroma di banana), ma percepire solo tali aromi in un vino è indice di una vinificazione senza bucce di uva di pessima qualità; il vino risultante tuttavia può finire a scaffale a 2€ al litro ed essere comprato, come riportano i dati visti in precedenza, in grande quantità.
Dire che il terroir viene annullato dal lievito selezionato è una grande castroneria. Vuol dire negare totalmente l’effetto sull’uva e i suoi aromi di latitudine, altitudine, esposizione, microclima, composizione del suolo… Un’imprecisione grossolana che si confuta da sola (a meno che non si parli di omologazione del gusto di vini dozzinali, ma allora lì il lievito selezionato è l’ultimo dei problemi).
Altra imprecisione è tramandare la leggenda dei lieviti indigeni localizzati sulla buccia dell’uva. I lieviti indigeni sono sia in campo che, in misura maggioritaria, nell’ambiente di cantina. Fosse vera la leggenda e dovesse piovere a ridosso della vendemmia, cosa direbbe il vignaiolo: “addio lieviti, addio vino, l’uva quest’anno ce la mangiamo a chicchi”?
Ad ogni modo qualcuno dovrebbe spiegarmi a cosa dovrebbe portare la dicotomia trasmessa da Report “lieviti selezionati – male” / “lieviti indigeni – bene”. Se l’obiettivo è convertire le grandi aziende enologiche (quelle “industriali”) allo spontaneismo fermentativo, è pura utopia; se invece è portare gli italiani ad acquistare i vini prodotti dai vignaioli naturali, abbiamo un problema di ‘educazione’ del consumatore, di volumi, di distribuzione e di prezzo: gli italiani amano comprare vino al supermercato, e non ne ho mai visto alcuno offrire al pubblico vini cosiddetti naturali. Però la storia di Nevio Scala che, commosso, ritrova un lombrico nella terra del suo campo dopo anni di uso della chimica è evocativa, va detto. E non mi soffermerò a combattere il pigro uso giornalistico che ancora si fa dell’aggettivo “chimico” con accezione negativa, basta l’intelligenza a chiarire che qualsiasi materia è una sostanza chimica.
Alla fine questa puntata di Report lascia un po’ poco agli esperti di vino. Parla di due aziende sospettate di comportamenti fraudolenti, senza però indagare nel merito (come con il successivo servizio sull’ANAS) ma solo citandole come esempi non virtuosi nel panorama enologico italiano. Il resto sono nozioni enologiche alquanto imprecise.
La chiusura finale di Sigfrido Ranucci è, per riprendere le parole del ministro Lollobrigida a lui indirizzate a dicembre, una bacchettata ai veri nemici interni della sovranità alimentare, ovverosia le aziende vinicole cosiddette industriali, che distribuiscono troppi prodotti chimici (aridaje) in vigna e che vinificano uve di scarsa qualità a rese mastodontiche; queste uve danno origine a vini scadenti, che necessitano della mano dell’enologo e dei cari additivi chimici (e tre) per essere resi appetibili e coincidere coi gusti del consumatore, che acquista il vino al supermercato spendendo cifre giammai riconducibili ad un prodotto di qualità. E, leggendo fra le righe, più che al mondo del vino mi pare che la bacchettata sia stata data ai consumatori.