Prosecco vs Prosek: la battaglia vinta in partenza che aiuterà solo Giorgia Meloni

Qualcuno di voi pensa seriamente che il Prosek croato possa sfangarla contro il Prosecco? Perché probabilmente non lo pensa nemmeno Giorgia Meloni.

Prosecco vs Prosek: la battaglia vinta in partenza che aiuterà solo Giorgia Meloni

Alla fine la battaglia dei nomi la vincerà il Prosecco contro il Prosek, scommettiamo? E il merito sarà tutto di Fratelli d’Italia, il partito che da ghetto neo*** sta diventando una coperta, anzi una bandiera sempre più ampia dove trovano rifugio le più disparate genti (ultimo ma non ultimo Carlo Freccero). Ecco come un caso di raffinatezze enologiche e cavilli legali, vitigni di nicchia e norme UE, si è trasformato prima in uno scontro tra opposti nazionalismi – quello croato e quello nostrano – e poi in un capolavoro politico di Giorgia Meloni.

Capolavoro poi: mossetta furbetta che farà lucrare un altro spicchietto di popolarità ai difensori dell’italianità a 360° – ma il livello della politica è talmente basso che si vince così, anche con una doppia coppia.

Prosecco e prosek, le differenze

Prosek prosecco

Dunque da una parte abbiamo il nostro Prosecco, il vino spumante – ma può essere anche frizzante o fermo – raccolto sotto una Denominazione di origine controllata (prosecco Doc), e due Docg (Prosecco di Conegliano Valdobbiadene Docg e Asolo Prosecco Docg). È un vino famosissimo, protagonista degli aperitivi, e campione mondiale di esportazioni. 

Dall’altra ecco il croato Prošek, vino dolce tipo passito, prodotto in una zona molto ristretta della Dalmazia, in un numero limitato di bottiglie. Si ottiene dalla spremitura di uve messe a seccare al sole, appassite appunto, e quel che ne risulta è un vino corposo, dai colori intensi, molto profumato e con una quantità ancora elevata di zuccheri residui. 

Insomma i due attori in gioco non potrebbero essere più diversi, se non per un particolare: il nome. Che diventa il pomo della discordia.

La battaglia legale e il caso del Tocai

Come scrivevamo otto anni fa quando la Croazia è entrata nell’Unione Europea, e come ha ricordato anche il Ministro dell’agricoltura Stefano Patuanelli nell’informativa al Senato, già nel 2013 i croati ci provarono a far entrare il Prosek nell’elenco delle Menzioni Tradizionali, ma senza successo. Ora tornano alla carica: a giugno scorso è stata chiesta la pubblicazione della domanda nella Gazzetta Ufficiale europea, e qualche giorno fa, a settembre 2021, questa è stata effettivamente inserita dopo che la Commissione ha ritenuto che non ci fossero ostacoli. Cosa che subito e un po’ allarmisticamente è stata definita come “il via libera della UE al riconoscimento del Prosek”; e che invece è solo una domanda di autorizzazione, come ha sottolineato il Commissario all’Agricoltura Janusz Wojciechowski, verso la quale possono essere sollevati rilievi contrari nei successivi due mesi, cosa che l’Italia si appresta a fare. Certo, la procedura si fosse bloccata prima ancora di arrivare alla richiesta formale, saremmo stati tutti più tranquilli. Però insomma, non solo non è detta l’ultima parola: a stento è stata pronunciata la prima. Keep calm e stappa una bottiglia. 

 

Come andrà a finire? Sembrano esserci pochi dubbi. L’ottimo Maurizio Gily su Mille Vigne lo spiega così bene che non posso far altro che copincollarlo:

In realtà appare estremamente improbabile che la UE riconosca al Prošek il diritto di mantenere questo nome. Infatti in base alle norme comunitarie “vince” il nome di territorio e Prosecco è un’indicazione geografica, grazie all’escamotage del disciplinare che fa riferimento al paese di Prosecco. Prošek, oltre al fatto di “arrivare dopo” nella richiesta di una tutela, il che già non è poco, non è un nome geografico: quindi, se viene riconosciuta l’assonanza con il nome Prosecco, come pare inevitabile, non può essere autorizzato. Si ripete, a parti invertite, il caso Tokaj-Tocai: in quel caso vinse l’Ungheria, per lo stesso motivo per cui vincerà il Prosecco. Fanno bene i nostri rappresentanti a impegnarsi per questo risultato, ma a dire il vero non pare affatto una battaglia complicata: mentre quella sul Tocai provocò analoga agitazione ma, in quel caso, era palesemente persa in partenza.

Champagne russo e champanillo

champanillo

Quello del Tocai friulano, non è l’unico precedente. Le normative europee tutelano con molta severità il cosiddetto parassitismo commerciale, che si ha quando una confusione tra due prodotti può avvantaggiare quello meno famoso e successivo, a danno del marchio noto. E attenzione, l’elemento soggettivo non conta, non ci si può difendere dicendo “io non avevo intenzione di copiare”. La protezione va estesa anche a immagini o a cose non proprio uguali ma simili: il caso più volte citato in questo ultimi giorni è quello della catena di bar spagnoli Champanillo, il cui nome è stato bloccato per l’eccessiva somiglianza con lo champagne. Ma ricordiamo anche un divieto di usare un gallo per un’azienda di vini, dato che il gallo nero è il simbolo riconosciuto del consorzio Chianti: i due pennuti non si somigliavano per niente, ma erano entrambi galli che agitavano i bargigli nel settore vinicolo e tanto bastò.

Ben diverso è il caso, anche recentemente molto citato, della Russia che ha detto che solo il loro è Champagne, non quello francese (lol). Lo spiega Armando Castagno su Facebook: 

https://www.facebook.com/armando.castagno/posts/4079827405471223

La Russia di Putin NON ha impedito ai produttori di Champagne di etichettare come ‘Champagne’ (in francese, come da noi) il proprio Champagne esportato in Russia, che dovrà solo riportare in piccolo la dicitura in cirillico che attesta trattarsi di uno spumante. Questo nonostante la Russia NON sia firmataria degli accordi di Lisbona sulla tutela delle indicazioni geografiche. La Russia di Putin HA invece limitato al pallidissimo surrogato ‘proletario’ russo dello Champagne la dicitura ‘(Sovetskoye) Shampanskoye’, un tristo ma diffuso vino simil-Charmat prodotto con tale nome sin dal 1937, il cui nome è stato utilizzato finora disinvoltamente, beninteso in cirillico, come traduzione di ‘Champagne’ dalle Maisons francesi.  

L’Italia chiamò

Prosecco Fratelli d'Italia

 

E veniamo alla politica. Il tentativo di cavalcare l’onda, va detto, è innanzitutto croato. Perché onesto: voi l’avevate mai sentito nominare sto Prosek? A me adesso, solo a leggerne la descrizione – “colore dal giallo scuro, con tonalità di oro vecchio, fino a rossastro con sfumature brune…”, “aroma di frutta sovramatura con una lieve nota di legno…”, “gusto pieno…” – mi è venuta curiosità di provarlo. 

Ma quello è un tentativo commerciale, la ricerca di pubblicità gratuita. L’intervento di Fratelli d’Italia è una vera invasione di campo: si sa, il food è una facile terra di conquista per nazionalismi più o meno fondati, tricolori più o meno inutili. Si va da sacrosante difese delle eccellenze contro le imitazioni (parmesan e simili) all’esaltazione dei prodotti nazionali a meri fini protezionistici (non ho mai capito perché l’olio nostro sarebbe tanto meglio di quello spagnolo o greco) fino alle vere e proprie strumentalizzazioni. La stampa di destra ha incominciato a battere la grancassa del vittimismo: “Prosek ennesimo schiaffo al made in Italy”. I Fratelli d’Italia sono scesi in piazza con un flash mob davanti al Senato, contro un “Governo che si mostra forte con i deboli e debole con i forti” (i croati?).

La furberia sta nel provare a intestarsi questa guerra, che è palesemente vinta in partenza, mettendosi così in una win win situation: se il Ministro dell’Agricoltura – come ha già dichiarato varie volte di voler fare – si batterà come un leone per il prosecco, Meloni potrà dire di aver imposto la propria linea battagliera. Se lui o qualcun altro dovessero invece apparire appena tiepidi, ecco che Fratelli d’Italia potrà passare come l’ultimo baluardo in difesa dell’italianità e del cibo genuino. Non so a voi, ma a me mi è venuta voglia di aprirmi una bella bottiglia. E non vi dico di cosa.