Peroni non produrrà più Birra Napoli fino al 2025, in seguito a una causa iniziata dal microbirrificio partenopeo Kbirr. Non si è arrivati a una sentenza ma la decisione è frutto di un accordo per evitarla: in altre parole Asahi, la multinazionale che possiede il noto marchio italiano, ha ammesso di avere torto. Se ne riparla fra tre anni, se mai.
Birrifici artigianali vs marchi industriali
La notizia è rilevante per almeno due ordini di motivi. Uno: per una volta – anche se non per la prima volta – una controversia legale che vede opposte una grande industria e un birrificio artigianale, finisce con la vittoria di questa ultima. Di solito siamo abituati a vedere il contrario, nel mondo del food e in particolare della birra: e questo anche quando le presunte violazioni sono pretestuose. Molti ricorderanno l’hamburgheria torinese M**Bun, che in origine si chiamava Mac Bun: un’espressione dialettale che significa “solo buono” ma che ricordava in effetti da vicino il Mac di McDonald’s; in quel caso il colosso scese in campo e non ce ne fu per nessuno.
Oppure, venendo al mondo birra, il birrificio Troll dovette cambiare nome alla sua Stella di Natale perché troppo simile alla Stella Artois, di proprietà della multinazionale AB InBev. Caso ancora più clamoroso, quello del birrificio Luppolo Station che fu diffidato da Carslberg, multinazionale proprietaria tra gli altri del marchio Birra Poretti, quella dei cinque, sette, nove luppoli: clamoroso e bizzarro perché, insomma, il luppolo è uno dei quattro ingredienti necessari della birra, dovrebbe essere di tutti, quindi di nessuno.
Ma poi a un certo punto le cose hanno incominciato ad andare diversamente: un caso? L’ingaggio di avvocati migliori? La maggiore rilevanza economico-politica del movimento delle birre artigianali? Sempre di Davide contro Golia si tratta, eh, eppure qualche volta va a finire proprio come nella storia biblica. Per esempio Damm provò a impedire la registrazione del marchio L’Aura perché sosteneva fosse troppo simile al suo Daura: ma la richiesta fu respinta. Ancora più rilevante il caso B94: qui addirittura fu il piccolo birrificio a muoversi contro Ceres, che nel 2016 lanciò il marchio Norden contrassegnato da una grande N; che però era troppo simile alla N della November Ray, sul mercato da anni; e un tribunale diede ragione a Davide. Cosa obiettivamente difficile non solo per timore reverenziale e maggior peso dell’industria: logicamente è più facile che un marchio sconosciuto si avvantaggi della somiglianza con un nome noto, e non viceversa. Solo che noto non è sempre sinonimo di grande.
La Birra Napoli non c’entra con Napoli
Il secondo motivo, forse ancora più importante, è che in questo caso non si tratta di un’appropriazione, da parte di un privato, del nome o dell’immagine cha appartiene a un altro privato. Benché infatti la contestazione sia stata mossa dal birrificio napoletano Kbirr, il motivo del contendere sta nell’uso improprio del termine legato alla località. In altre parole, la Birra Napoli non ha niente a che fare con Napoli.
Facciamo un po’ di storia: il marchio Birra Napoli è stato lanciato nel lontano 1919, più di un secolo fa, dall’azienda Birrerie Meridionali, una delle tante realtà che hanno fatto la storia brassicola nostrana in tempi che oggi ci sembrano preistorici, e che poi via via sono stati assorbite dalle major e sono confluite sotto pochi ombrelli. Così avvenne per Birrerie Meridionali che già nel 1926 divenne di Peroni. La produzione della Birra Napoli è mantenuta fino a un certo punto, ma poi dismessa. Così anche avvenne per lo stabilimento partenopeo, che negli anni ’50 fu spostato dalla sede storica di via Nuova Capodimonte a Miano. Nel 2003 Peroni diventa della multinazionale SABMiller, la quale nel 2005 chiude la fabbrica: addio Napoli. Nel frattempo il marchio Peroni passa a AB InBev e poi, per decisione antitrust, alla giapponese Asahi. Che nel 2018 decide di rilanciare Birra Napoli, ma senza alcuna modifica delle strategie produttive: unico legame con il territorio, l’orzo e il grano usati per fare la birra sarebbe campani.
Dopo un anno arriva la citazione di Kbirr, che ricorda gli argomenti portati da Confoconsumatori nell’analogo caso di Birra Messina. Anche qui, Heineken usava un marchio molto vicino a una denominazione d’origine, senza più alcun legame con il territorio: nel 2010 pertanto l’Antitrust impose di togliere dall’etichetta il simbolo Triscele e le scritte “antica ricetta” e “dal 1923”, e di aggiungere in evidenza che la località di produzione è Massafra (Puglia). Una vittoria, certo, ma parziale, perché il nome Birra Messina continua a essere usato.
Il caso Birra Napoli è finito in maniera diversa, ma non sono mancati i colpi di scena, e quelli bassi. La multinazionale prima negò: Peroni scrisse a Cronache di Birra chiarendo la sua posizione e spiegando che, a differenza di quanto raccontato, non aveva ricevuto alcun atto di citazione. Poi, come ci racconta Fabio Ditto, fondatore e CEO di Kbirr, chiese 200mila euro di risarcimento “per danni, perché quello che io avevo fatto era lesivo della loro reputazione commerciale”. Ma Ditto insiste: “Non investivano un euro nella città di Napoli, per cui la trovavo una grossa ingiustizia”. La richiesta iniziale di Kbirr era di sospendere la produzione tout court, ma “il giudice spingeva per trovare un accordo, noi proponevamo 10 anni, loro replicavano con un anno”. Alla fine il compromesso è stato di 3 anni, anzi di 4 perché l’accordo risale al novembre 2021. Il termine è luglio 2025.
Fabio Ditto parla di vittoria di Pirro, anche se “nel momento in cui una multinazionale si ferma, e accontenta un piccolo birrificio, e sospende la produzione per quattro anni vuol dire che era in torto. Quello che adesso mi auguro è che loro non producano più, e probabilmente sarà così perché una grande industria una volta bloccato un progetto è difficile che lo rilanci”.