Una parte di vermouth rosso –meglio se Carpano–, una di gin e una di Campari. Tutto servito in un bicchiere vecchio stile, con mezza fetta d’arancia.
Nel 2019 si festeggia il primo secolo del Negroni. Cento anni per il re degli aperitivi italiani, il prototipo della mixology tricolore, il cocktail simbolo di Firenze, di un patrimonio culturale da tutelare a costo di scomodare Lino Banfi e l’Unesco.
I titoli si sprecheranno durante l’anno.
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Del resto, se gli ingredienti sono già freddi e buoni, se il bicchiere è della misura consona, se il barman è abile, se la quantità di ghiaccio non lo annacqua, il Negroni è un dono divino, soprattutto nei pomeriggi di gran caldo.
Una scarica di gusto rinfrescante che ha poco a che spartire con gli intrugli caraibici tanto di moda oggi.
Si dice che sia stato miscelato per la prima volta presso il Caffè Casoni di Via de’ Tornabuoni, oggi Caffè Giacosa. La leggenda è stata raccontata tante volte dal più credibile ricercatore, Luca Picchi, che sul tema ha scritto: “Negroni Cocktail una leggenda italiana”.
Un pomeriggio di 100 anni fa il conte Camillo Negroni, stufo di ingollare un altro Americano, chiese al barman una modifica al drink: una spruzzata di gin, che aveva conosciuto in un recente viaggio in Inghilterra, al posto del selz. Da allora il cocktail rosso rubino è entrato nel mito.
Ma sul 1919 come anno di nascita Luca Picchi instilla qualche dubbio. Date ufficiali non ce ne sono, potrebbe essere nato in un arco di tempo che va dal 1917 al 1920.
Picchi cita anche una lettera lettera scritta dall’antiquario Francis Harper, amico del conte, che porta la data del 13 ottobre 1920. Nella missiva Harper raccomanda all’amico di non bere “più di 20 Negronis al giorno”.
[Crediti | BarGiornale]