Noi credevamo di avercela fatta, che tutto fosse finalmente risolto. Credevamo che, a gloria della libertà di scelta e dell’umano progresso, avremmo finalmente avuto dei vini dealcolati prodotti anche qui in Italia. I vini dealcolati avrebbero cominciato a trovarsi sugli scaffali dei supermercati (non pretendiamo il loro ingresso in enoteca, non a breve termine perlomeno), e i consumatori che avessero voluto evitare l’alcol avrebbero potuto scegliere un prodotto mimetico della bevanda cara agli dei, perlomeno quelli dotati di buon gusto. E invece niente: proprio ora che l’attacco al vino dealcolato sembrava essere cessato, pare che fino al 2026 l’Italia non potrà produrre vini dealcolati.
Il repentino sì sul no alcol, poi l’inghippo
Certamente ricorderete le ritrosie di tutto il comparto enologico, unito contro l’avvento dei vini dealcolati. Non più tardi di un anno fa, e proprio al Vinitaly, il ministro dell’agricoltura Lollobrigida chiosava: “facciamo le bevande dealcolate e non chiamiamole vino“. Poi succede che lo scorso ottobre il ministro se ne esce con “faremo produrre i dealcolati in Italia perché tutto il mondo del vino li vuole ed è d’accordo“, compiendo un cambio di direzione in un tempo così breve da far commuovere un Allen Iverson, e a dicembre firma il decreto ministeriale numero 672816 per mezzo del quale anche su territorio italiano sarà “possibile ridurre parzialmente o totalmente il tenore alcolico dei vini” (da notare che è possibile per ora ridurre il tenore alcolico solo di vini generici, non di vini DOP o IGP).
Tutto è bene quel che finisce bene, dunque, no? Bravi, no. Perché succede che al Vinitaly di quest’anno il presidente dell’Unione Italiana Vini Lamberto Frescobaldi se ne esca con: “sui dealcolati oggi il settore è fermo con le quattro frecce: dobbiamo risolvere gli snodi fiscali e normativi e dobbiamo iniziare a produrre“. Ora noi, ricordando le incertezze di Frescobaldi in materia di diritto, possiamo anche pensare ad un’esagerazione; ma a dare un’ulteriore pennellata di blu tenebra ci sono le parole del segretario generale di UIV Paolo Castelletti: “se il ministero dell’agricoltura non interviene sulle disposizioni fiscali previste dal ministero dell’economia e delle finanze, le imprese dovranno attendere fino al 2026 prima di poter partire con la produzione”. In pratica ci sono due ministeri che non si stanno parlando e il ‘via libera’ dell’uno coincide con il ‘fermi tutti’ dell’altro. In mezzo centinaia di produttori che vorrebbero produrre vini dealcolati il cui mercato, a giudicare dai trend, è in fortissima ascesa.
Non conoscendo nei dettagli l’empasse, ipotizziamo che la questione riguardi il ruolo dell’alcol etilico sottratto al vino. Se ne era già parlato prima dell’attuazione del decreto, con alcuni produttori di vino a volerlo derubricare come scarto e l’Assodistil a dire in sostanza “ma voi siete matti”. Il decreto ha infine posto come destino dell’alcol etilico generato o l’impiego, previa denaturazione, come bioetanolo o, se proveniente da distillazione sottovuoto, l’utilizzo per la produzione di distillati di vino. Ora, chi distilla in Italia è sottoposto ad accise sull’alcol etilico, e in questo caso emergono interessi contrastanti tra chi l’etanolo lo vuole per ottenere liquori e distillati e chi invece lo allontana per produrre i vini dealcolati.
Insomma, per una volta che il comparto enologico si era mosso con tempi anche piuttosto celeri rispetto alle lungaggini burocratiche che la pubblica amministrazione genera nel cittadino, ecco arrivare puntuale l’intoppo fiscale, il contrasto tra ministeri e il vuoto normativo. Lo devo dire: puntuale come le accise.