Certe tradizioni non vanno incoraggiate, come la torta di tagliatelle mantovana (bleah), la Panaché (o “bicicletta”, insomma la lager con gazzosa che tra Francia e Piemonte si beve giocando a carte) o le birre alla zucca. Parlo delle Pumpkin Ale, le fortunatamente stagionali che, ahinoi, si fecero strada fin dalla colonizzazione del continente americano, quando gli europei compresero che le locali cucurbitacee, con i loro zuccheri fermentabili, sopperivano alla scarsità di malto d’orzo del Vecchio Continente. Doveva attraversare l’Atlantico, sapete com’è.
Insomma, le birre alla zucca non sono nate perché, messe lì a fermentare per caso, si rivelarono una gran bontà come vogliono chissà quante leggende gastronomiche: anzi, stando alle origini, relegano la zucca alla mera utilità, laddove pareva brutto buttare nella cotta gli appena scoperti fagioli. Ma noi le beviamo lo stesso, puntualmente, Ognissanti(ssimo) 31 ottobre.
Le beviamo con lo stesso spirito con cui durante le festività natalizie mangiamo i datteri e poi per un anno dimentichiamo dove stanno di casa al supermercato. A metà novembre, puntualmente, il vecchio dattero è in bella vista, così come a fine ottobre il birraio esce la birra alla zucca, sapendo in cuor suo che la venderà.
Pumpkin Ale: una storia americana
La storia delle birre alla zucca insiste, impietosa, con il rispolvero delle pumpkin ale negli anni ’80, negli States (e dove, altrimenti) attraverso la ricetta della Buffalo Bill’s Brewery, che in pieno nascimento brassicolo artigianale produsse una birra alla zucca per omaggiare la “Pompion Ale” (si diceva così, nel ‘700) di George Washington, noto home brewer che ricorderete per la presidenza degli Stati Uniti d’America.
Comprenderete che, negli USA, hanno ragione di esistere. Al di là dell’apporto, pressoché irrilevante, del sapore della zucca in una birra ad alta fermentazione e tendenzialmente dolce, si capisce perché, in autunno, i birrifici americani spremano le meningi in giochi di parole ispirati alle loro benedette pumpkin.
Birre che spesso vengono caratterizzate, proprio perché la zucca non basta di per sé (che sia usata sotto forma di purea, arrostita, in essenza, a pezzettoni o con doppio scappellamento a destra) attraverso le spezie con cui normalmente le zucche vengono cucinate, per un effetto finale tristissimo. Non sono tanto pumpkin ale, quanto pumpkin pie. Facendo la tara, in Italia, dovremmo bere birra al tortello di zucca. E talvolta lo facciamo.
Le birre alla zucca: perché?
Perché ovviamente noi italiani abbiamo preso la palla al balzo: fior fior di birrifici artigianali si impegnano nella causa della birra alla zucca (non li citerò, per pietà), elargendo ad Halloween stucchevolezza mista a cannella e chiodi di garofano, noce moscata e zenzero. Non c’è una regola precisa, per l’organismo internazionale di riferimento agli stili (il BJCP) le birre alla zucca sono nella categoria 30A: Spice, Herb or Vegetable beer, una grande famiglia dedicata alle ricette caratterizzate da spezie, erbe o vegetali, per l’appunto, purché caratterizzino.
Ora, le considerazioni sono due:
Perché odiate la zucca?
La zucca è meravigliosa, incredibilmente variegata. Sono 500 varietà per 15 specie, per la precisione. Si va dalla noce alla nocciola, dalla texture della zucchina a quella della castagna, dal giallo pallido della “zucca spaghetti” all’arancio vispo della Potimarron Red Kuri (meglio conosciuta come Hokkaido): ora, mi volete spiegare perché odiate tanto un frutto così complesso da buttarlo (spesse volte indistintamente) a bollire nella birra, sapendo con certezza che non saprà di niente?
La zucca è buona mangiata, sentendone la consistenza, o cucinata, esaltandone i sapori. Cosa credete di fare brassandola?
Ci sono ingredienti migliori, per una birra
Cambiando discorso, tra gli ingredienti caratterizzanti della birra vediamo di tutto: il cocco nelle imperial stout, che si può capire e non per forza condividere, i fiori nelle blanche, la frutta a bacca rossa nelle sour, il sacrosantissimo cioccolato nelle porter. Noi italiani, che siamo così nel cuore del Mediterraneo, abbiamo un sacco di frutta e di verdura. Perché insistere così tanto sulla zucca, che è cosi banalmente trasversale, che cresce ovunque e poi nella birra non sa di una beata?
“Mmm che buona questa birra, si sente proprio che c’è la delica!” “Ma cosa dici, Gianluppolo, si avverte chiaramente la polposità paradigmatica della Tetsukabuto”. Un dialogo così non lo sentirete mai, e non perché gli appassionati di birra non si trastullino sulla percettibilità della fava di cacao. Giusto lo scorso mese, a Eurhop 2019, il mio vicino di bevute esclamava “Hai usato una buona arabica qui“, riferendosi alla buona Last Coffee Stout del birrificio marchigiano Mastio. Ecco, questo è credibile.
Se proprio vogliamo distinguerci, facciamo delle Italian Grape Ale, le birre con l’uva che effettivamente rappresentano il nostro unico “stile” e che rendono, rendono eccome. Rendono onore ai vitigni utilizzati, se il birraio li conosce, creando sfumature aromatiche che fanno delle pumkin ale birre (ancor più) risibili.
Ma se io fossi una birraia, dopo essermi tanto impegnata con la pesca del territorio nella birra acida e con l’acqua della fonte locale nella bassa fermentazione, farei una gran bella birra alla zucca pronta per l’autunno. Quella, sicuramente, se la comprerebbero.