Un grido di dolore dal titolo “l’obbligo della verità” è giunto il 27/06/23 dalla pagina Facebook dell’azienda agricola La Distesa: le vigne sono state falcidiate dalla peronospora, il raccolto è perduto, Gli Eremi e Le Derive del 2023, vini di punta dell’azienda, non ci saranno, anche gli altri vini aziendali sono in forse. Una mazzata, e di quelle pesanti. Un anno intero di lavoro perso e con esso, molto pragmaticamente, anche il reddito derivante.
Per chi non la conoscesse, La Distesa è un’azienda vinicola fondata e gestita da Corrado Dottori e Valeria Bochi, e si trova a Cupramontana (AN), uno dei luoghi elettivi del Verdicchio. La realtà è biologica certificata ma abbraccia visione politica e criteri agronomici della viticoltura naturale (sui quali pregi e difetti ci siamo già soffermati in articoli come questo o quest’altro); criteri espressi, oltre che sui social media aziendali, anche nei due libri scritti da Corrado Dottori, “Non è il vino dell’enologo” e “Come vignaioli alla fine dell’estate”.
Peronospora e rame
La proliferazione sulle vigne de La Distesa della peronospora della vite, malattia di origine fungina, è stata favorita dal “maggio più piovoso dal 1961“, situazione sperimentata da quasi tutti noi in Italia e che ha regalato a molti altri vignaioli gli stessi problemi. L’azienda è, come detto, biologica certificata: dunque, hanno potuto trattare la vigna con rame, “livelli estremamente bassi” sostiene Dottori. Che poi a voler cavillare, il rame ha l’antipatico effetto di accumularsi nel terreno, e questo è uno dei nodi che da sempre animano il dibattito tra biologici e convenzionali: si rigetta l’uso di molecole studiate ed adattate allo scopo (antifungini di sintesi, prodotti composti da più molecole ad azione antifungina, tipo il Folpan Gold, il Ridomil gold o l’Orondis) ma viene accettato l’accumulo, anno dopo anno, di rame nel suolo.
Ad ogni modo, nella fattispecie il minimo intervento non è comunque bastato e la vigna de La Distesa si è trasformata in un lazzaretto, portando così al pubblico mea culpa di Dottori, reo di aver “sottovalutato la situazione“. C’è però un ragionamento più profondo che è interessante riportare: “[…] fa male vedere il lavoro di un anno sparire in un mese. E poi, però, penso anche che il lavoro che stiamo facendo da anni è più ampio e più utopico dell’uva che serve per fare un vino. Che è un lavoro su un ecosistema. Che va oltre il commercio. […] Perché viene voglia di ridiscutere tutto, anche le scelte di una vita, ma poi va tutto messo in una prospettiva davvero biologica, che ha a che fare con un organismo vivente più grande di noi“.
Ebbene, tale pensiero ha diviso le opinioni degli utenti, con i toni propri dell’arena dei social media, tra chi ha profondo rispetto della visione di Dottori e chi è in totale disaccordo sul buttare un’annata solo per religiosa aderenza verso dettami non interventisti.
Il dilemma del vignaiolo
Parlando in termini generali, un’azienda vinicola che si dichiari ‘naturale’ avrà maturato negli anni una clientela fidelizzata, che non si ferma alla singola bottiglia ma vede nelle pratiche agronomiche dichiarate un valore aggiunto. E vorrei anche soffermarmi un momento sul ‘dichiarate’, che non è stato messo lì a caso: non tutte le aziende che producono vino naturale possiedono una certificazione, che sia ad esempio quella europea di vino biologico, o quella ancora più restrittiva di Demeter, organismo privato di certificazione dell’agricoltura biodinamica; in questo modo la naturalità dei metodi agronomici è certificata esclusivamente dalla narrazione della cantina e dalla fiducia del consumatore.
Se un dato anno l’azienda dovesse fronteggiare avversità climatiche e/o malattie del vigneto, gli si porrebbe davanti una scelta: curare il vigneto ricorrendo anche a prodotti di sintesi, da sempre osteggiati, macchiandosi del peccato di essere ricorsi alla chimica non essendo stati in grado (“capaci?”) di tener testa alle natura, con conseguente uscita dal ‘giro dei naturali’. L’altra opzione è fronteggiare le avversità munito solo di forbici e speranza, stando in vigneto il triplo del tempo, dormendoci quasi, ispezionando le viti foglia per foglia e ciuffo d’erba per ciuffo d’erba. Se non si fa questo, se si “sottovaluta la situazione”, si finisce col buttare via l’intero raccolto, con conseguenti mancati guadagni. Ecco, correre il rischio di avere reddito nullo per aver scelto di fissarsi nel non interventismo, lasciandoti scappare di mano un’epidemia non incontrollabile, lo puoi fare solo se non conti su quel reddito per campare, se hai altre fonti di guadagno.
Per quanto ritenga eticamente giusto intervenire il meno possibile in vigna, ammetto che fatico a comprendere come un’azienda vinicola, che teoricamente mangia e si sostiene con gli introiti derivanti dalla coltivazione dell’uva, possa accettare di perdere l’annata scegliendo di non ‘medicare’ le piante davanti ad un’emergenza. Chiunque è padronǝ del proprio vigneto, padronǝ anche di estirpare le viti e piantare biricoccoli se ciò lǝ soddisfa; tuttavia, accettare di perdere il raccolto solo perché la natura lo ha ‘deciso’ la vedo una resa incondizionata al fato, che può permettersi un hobbista, non un’impresa; essa non dovrebbe per definizione andare “oltre il commercio”, a maggior ragione se è da quel commercio che si veicola il proprio messaggio di naturalità. Senza commercio di vino l’unico messaggio che ci leggo è “per noi non è così importante fare vino”, che è legittimo, badate bene, ma può essere deludente per la folta schiera di sostenitori del vignaiolo in questione. E resta comunque un peccato.