É il 18 marzo 1986. L’Ansa batte una lunga serie di lanci. Riguardano indagini su morti sospette avvenute a Milano. Il sostituto procuratore Alberto Nobili, detto “il leggendario” per la sua tenacia, dichiara che alcuni decessi possono essere collegati tra loro e dipendono da avvelenamento da metanolo.
Nobili, pur non avendo ricevuto ancora rapporti definitivi dai Nuclei Anti Sofisticazione dei Carabinieri, si spinge oltre. Afferma che i vini sofisticati sono il Barbera da tavola e il bianco da tavola imbottigliati dalla ditta Vincenzo Odore di Incisa Scapaccino (Asti). Questi bottiglioni sono comunemente reperibili negli scaffali della grande distribuzione lombarda, al GS, all’Esselunga e alla Coop. Consumati in grandi quantità potrebbero causare danni permanenti e portare alla morte.
Ecco il primo di una lista di errori comunicativi che renderanno questa vicenda opaca e misconosciuta in Italia. Forte dell’accenno alle grandi quantità da ingerire perché si patiscano danni, la stampa inizia a relegare la pericolosità dell’evento ai soli alcolisti. Ma non era assolutamente così e, presto, sarà tristemente chiaro.
Il vino metanolizzato travolgerà la vita di normalissimi cittadini, la maggior parte di loro semplicemente dedita a bere tutt’al più un paio di bicchieri al giorno, durante ai pasti. Persone comuni che hanno la sola colpa di consumare bottiglie economiche e ultra economiche, come appunto quelle che la Odore fornisce alla grande distribuzione. Quei bottiglioni di Barbera diventeranno il simbolo della più sconvolgente truffa alimentare italiana e del più doloroso scandalo internazionale del vino.
Tre le prime morti ufficialmente causate dal metanolo, quelle di Armando Bisogni, Renzo Cappelletti e Benito Casetto. Il numero delle vittime salirà nel giro di pochi giorni a 19, mentre 23 saranno le persone rese totalmente cieche dall’avvelenamento di metanolo e oltre 150 risulteranno intossicate. Numeri enormi, ma non è sicuro quali siano stati i reali termini di questa strage: è opinione comune tra i sanitari e inquirenti che molte morti e lesioni siano sfuggite ai conteggi e siano state attribuite ad altre cause.
Cos’è il metanolo e perché fu usato per sofisticare il vino
Prima di continuare a seguire lo svolgimento delle indagini di questa oscura vicenda e di analizzare quale siano stati i devastanti effetti che la strage al metanolo ha avuto per oltre un decennio nel mercato vitivinicolo italiano, sarà bene chiarire cosa sia il metanolo.
L’alcol metilico (MeOH) è un liquido incolore e inodore, comunemente usato come carburante o solvente per vernici. Il metanolo è altamente tossico e causa nell’organismo umano:
- perdita di coscienza, sino al coma;
- disturbi visivi, sino alla totale cecità;
- acidosi metabolica.
Questo perché induce la depressione del sistema nervoso e i suoi metaboliti causano danni al nervo ottico e alla retina.
Il metanolo è naturalmente presente in minime quantità nel vino. Viene infatti definito spirito di legno, perché si sviluppa nell’idrolisi enzimatica che avviene nei processi di vinificazione.
L’alcol metilico ha anche un’altra caratteristica: addizionato con quello etilico, alla base di ogni prodotto alcolico (vino incluso) ne aumenta molto velocemente il grado alcolemico. Proprio questo lo renderà appetibile per alcuni spregiudicati produttori e distributori di vino.
Una serie di sfortunati eventi aumenterà l’interesse economico dei criminali sofisticatori.
Due sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo emanate nel marzo 1983 condannarono l’Italia a rimuovere il sistema di tassazione differenziata dei prodotti alcolici provenienti da altri stati membri. Tale comportamento fu ritenuto dalla Corte, investita della questione dalla Commissione delle Comunità europee, discriminatorio da parte della Repubblica italiana: il nostro paese fu onerato a rimuovere la sperequazione.
In adeguamento a tali dispositivi, la legge n. 232 del 28/7/1984 eliminò le differenze di tassazione tra distillati italiani e quelli provenienti da stati membri dell’allora CEE. In questa legge fu inserita anche la detassazione del metanolo. L’abolizione dell’imposta sulla sua fabbricazione ebbe anche un altro effetto: gli Uffici Tecnici della Finanza non furono più coinvolti nel controllo della commercializzazione del metanolo.
Vista la sua elevata tossicità, il metanolo era espressamente escluso dall’elenco delle sostanze utilizzabili in ambito alimentare. Ma, del resto, sin dal 1965 in Italia era vietata l’addizione degli zuccheri al vino (cosa invece consentita per esempio in Francia): purtroppo questo non aveva mai fermato i sofisticatori.
La sua detassazione fece diventare l’alcol metilico più economico dello stesso zucchero. Vi erano altri due vantaggi: il metanolo ha un potere di aumento del grado alcolemico del vino molto più elevato dello zucchero e tale processo è anche più veloce.
In sostanza, per i pirati del vino, come li definì Bettino Craxi, primo Ministro al momento dell’emersione dello scandalo, era molto più rapido e meno rischioso l’utilizzo del metanolo: il processo era tanto veloce da ridurre al minimo il rischio di essere scoperti da controlli a sorpresa, durante le operazioni di addizione.
Perché c’è da dire che anche all’epoca, la filiera della produzione del vino, certo molto più approssimativa e quasi artigianale rispetto a quella odierna, era comunque sottoposta a molti controlli da parte degli organismi statali preposti.
In questo nuovo contesto normativo e fiscale, tra il dicembre 1985 e il marzo 1986 in Italia furono commercializzate oltre due tonnellate e mezzo di metanolo. Viene da dire che si produssero davvero tante vernici!
I Pirati del vino: la rete criminale del vino metanolizzato
Torniamo a quel fatidico marzo 1986. Nobili conduce con celerità e precisione le sue indagini. Il numero delle vittime e quello dei danneggiati dalla ingestione di vino al metanolo lo incalza. Si parte dalla ditta Odore: da subito emerge che sia Vincenzo Odore sia suo figlio Carlo sono estranei alla rete criminale che ha portato nelle loro bottiglie queste dosi enormi di metanolo. La Odore è una ditta storica, opera nella provincia di Asti da quasi un secolo.
Una piccola realtà che nella seconda metà degli anni ’80 è arrivata a produrre oltre quarantamila ettolitri di vino all’anno e a fatturare oltre un miliardo di lire. Il suo mercato di riferimento non è più la sola Lombardia, ma anche la Liguria e perfino il Canton Ticino e la Francia. La reputazione degli Odore è specchiata.
E la loro reazione lo conferma: indagati di omicidio plurimo e di lesioni personali colpose, Carlo e Vincenzo non si negano ad alcuna verifica e producono ai Carabinieri tutte le necessarie documentazioni. Proprio grazie a questa collaborazione, Nobili fiuta la traccia successiva per ricostruire la complicata rete del vino al metanolo. Passano le settimane e la Procura di Milano inizia ad avere un quadro più chiaro, anche se quello che emerge è sconcertante: un filo rosso, come il vino che adulterano, lega regioni come il Piemonte, l’Emilia Romagna e la Puglia. Semplificando moltissimo l’attento lavoro operato da Nobili e dai Nas, si giungerà alla individuazione di un uomo, il Cavalier Giovanni Ciravegna, quale mente organizzativa di questo colpevole traffico.
Ciravegna ha la sua sua azienda a Narzole (Cuneo), in un territorio al confine con le famose Langhe. Ha una lunga storia nella produzione del vino ed è conosciuto come Dudes e Mes, dodici e mezzo come i gradi che rendono possibile la commercializzazione di un vino rosso. Questo soprannome deriva dalla notoria capacità di Ciravegna di ottenere sempre il grado alcolemico minimo. I modi in cui lo raggiungere sono adesso al punto di rottura. Assurdo è scoprire che già nel 1984, nell’azienda dello stesso Ciravegna fossero stati rilevati valori fuori soglia di metanolo, a seguito di un controllo. Vi fu anche una denuncia contro Ciravegna per sofisticazione alimentare. Non vi fu dato seguito così continuò ad operare indisturbato.
Il suo atteggiamento con gli inquirenti è molto diverso da quelli degli Odore. Tace e si limita a guardare lo svolgersi delle operazioni. Più collaborativo il figlio Daniele, che però definisce il proprio ruolo in cantina come esclusivamente commerciale e dichiara di essere del tutto estraneo al processo produttivo.
Nelle settimane successive, Nobile e la sua squadra ricostruiranno un complicato schema di malaffare che unisce produttori di vino da taglio di Manduria in Puglia (la Cantina Fusco), di Solarolo e Riolo Terme in Emilia Romagna (ditta Baroncini e Piancastelli) e, ovviamente la piemontese Ciravegna a produttori e distributori di metanolo.
Tra questi ultimi gioca un ruolo chiave la Giosca, ditta di autotrasporti di Bagnolo San Vito a pochi chilometri di Mantova. Il suo titolare, Giuseppe Franzoni, sarà identificato come un vero e proprio agente del metanolo. Anche lui, come Ciravegna, è già noto negli ambienti della sofisticazione del vino ma, diversamente da Giovanni, era stato arrestato nel 1983 per associazione a delinquere finalizzata alla sofisticazione. Franzoni, quasi fosse un piazzista, prende contatti con produttori di vino, proponendo quello che definisce come un affare lucroso e innovativo.
Ha l’identikit perfetto per tessere la rete criminale: conosce molte persone nel mondo vitivinicolo, ha la possibilità di reperire grandi quantità di metanolo e grazie alla sua azienda che possiede tre autocisterne per il trasporto di sostanze chimiche liquide, può portarlo a chi lo voglia utilizzare. Infine, grazie al suo passato di sofisticatore ha anche il know how per l’utilizzo dell’alcol metilico al fine di alzare la gradazione alcolica del vino.
Ciò che emerge dai controlli, oramai incessanti, è che sono molte di più le aziende che usano metanolo in Italia. Non a caso in quelle convulse settimane, il fiume Tanaro si tingerà improvvisamente di rosso. Non è una punizione biblica, ma il risultato dello sversamento di infinite vasche di vino nel fiume da parte delle numerose aziende vitivinicole piemontesi che volevano sottrarsi ai controlli e, soprattutto, alle loro conseguenze. Né il problema è confinato solo al Piemonte. Emergono forti irregolarità anche in Puglia e in Emilia Romagna. Paradossalmente l’ingordigia della rete criminale di Ciravegna (che impunemente aggiungevano ognuno nel proprio segmento quantità illogiche di metanolo al vino) ha reso evidente e neutralizzato un malaffare fin troppo diffuso. A parere di Nobili, le loro azioni abiette hanno forse perfino salvato delle vite, perché altrimenti avremmo corso il serio rischio che il vino metanolizzato, magari in quantità meno massive ma sempre estremamente pericolose e venefiche, avrebbe continuato per anni a girare in Italia e non solo.
Negli ’80, infatti, se il consumo interno di vino pro capite in Italia è elevatissimo, raggiungendo e superando i 60 litri, ancora più rilevanti sono i dati relativi all’export di vino nostrano.
L’Italia si stava affermando nel mercato internazionale del vino, insidiando la salda posizione francese. Anche i processi di vinificazione stavano migliorando, abbandonando l’aurea di arcaica artigianalità.
In questo contesto di sviluppo e progresso, è facile immaginare l’impatto che lo scandalo del vino al metanolo avrà sul mercato. Per analizzare meglio questa delicata congiuntura, abbiamo contattato Simone Nicòtina di Poggio Alla Meta e Angelo Rossi, enologo e direttore per quasi trent’anni del Comitato Vitivinicolo Trentino. Infine lasceremo la parola a Roberto Ferlicca, presidente del Comitato Vittime del vino al metanolo e figlio della compianta Valeria Zardini, tra le prime vittime del vino metanolizzato che la rese totalmente cieca.
A presto, con la seconda e la terza parte di questo excursus sul più grande scandalo alimentare d’Italia, di cui analizzeremo le conseguenze umane ed enologiche.