Analizzare il mondo del cibo e del vino scorrendo i comunicati stampa di settore può essere noioso quanto istruttivo e a tratti illuminante. La sostanza, e quindi la realtà, lo sappiamo, è da un’altra parte – nelle trattorie, in enoteca, nelle fiere, nelle tavole con amici -, ma i segnali che arrivano sono comunque inequivocabili.
Da quando, ormai più di un decennio fa, quasi due, la narrazione enogastronomica in Italia ha cambiato marcia e il discorso sul cibo si è prima sacralizzato, poi fanatizzato e infine sdoganato al livello nazional-popolare (la faccio breve ma ci sarebbe molto da scrivere e allargare lo spettro anche un confronto con il percorso analogo delle serie televisive, per dire), si è assistito all’abuso di una serie di forme retoriche e frasi fatte sempre più vuote di significato.
Soprattutto da quando l’industria se ne è appropriata per rifarsi una verginità a basso costo e a uso di una società di consumatori.
Le suggestioni più abusate le conosciamo tutti: la splendida cornice prima, lo storytelling, le nonne, le facce dei contadini e il km 0 poi, ma soprattutto le maledette eccellenze del territorio, punta di diamante della cultura slow food, rapidamente diventata una formula valida per vendere qualsiasi prodotto.
Qualcosa sta inevitabilmente mutando e il territorio, mio tormentone social per anni, mi pare essere la vittima più evidente di una nuova fase. Una fase di messa in crisi dei dogmi, ma anche una fase di nuovi guru, nuove consapevolezze. E di barricate estreme su ogni tema.
Il nuovo nemico ora è il portatore del sapere istituzionale, che sia l’enologo, il macellaio sotto casa che non sa una mazza di lunghe frollature, la pizzeria con la birra alla spina industriale o la trattoria che usa pasta da scaffale. Fuori c’è un mondo iperspecializzato, agguerrito e piuttosto serioso che ha trasformato il proprio oggetto d’indagine nella propria missione esistenziale.
Una passione spesso totalizzante che, nel bene o nel male, ha scardinato le formule retoriche di cui sopra come, spesso, anche i ricettari.
Il territorio quindi è la vittima designata, anche legittimamente. Chi lo ha detto che per il mio abbacchio pasquale non posso comprare l’agnello irlandese o che devo per forza brindare con un metodo classico da uve autoctone invece che con una bella boccia di Champagne?
Il ribaltamento di prospettive è comunque solo all’inizio, quindi il territorio continua a vivere, dormite sonni tranquilli uffici stampa, la sua evocazione però non ha più il passo e respiro dei tempi e la formula resiste ancora soprattuto in forme ibride, tipo “tra tradizione e innovazione”, sintesi dorotea valida davvero per tutto e tutti, quindi per niente. Un concetto intrinsecamente bel oltre le zone della supercazzola.
Anche nel mio mondo (quello del vino) le cose sono andate in maniera analoga e qui assistiamo a un paradosso che mi sta molto a cuore che è il ribaltamento di prospettiva dei vini naturali (vi prego non cominciamo a sfondarci le gonadi vicendevolmente sulla loro questione definitoria).
Un mondo che conosco bene e che è mutato in modo drastico e repentino.
Bere un vino naturale 15 anni fa era l’atto di maggior radicamento a quell’idea sana di territorio perché c’era spazio per due concetti fondamentali: lo stupore e lo svelamento.
Passare da un corso Ais a una fiera di vini naturali era davvero un immersione didattica che troppi hanno sottovalutato. La grande scoperta era il varietale e la sua espressione contestuale. Insomma la scoperta del terroir. Che non è ovviamente a solo appannaggio dei vini naturali, ma lo stordimento a Cerea, Villa Favorita e Fornovo era obiettivamente forte e stimolante.
Le cose sono mutate: attualmente, qualunque sia la vostra opinione in proposito (se può avere senso avere un’opinione su un’intera categoria piuttosto che sui vini che vengono fatti), il mondo dei naturali risponde soprattutto a un’estetica. Culturale, del gusto e dell’etichettatura. Risponde a dei canoni. Non importa che siano o no prescrittivi, perché in sostanza delineano una visione del mondo e propongono una contrapposizione che è sempre più avara di dialettica.
Sono vini con una personalità molto precisa, un corpus troppo privo di sfaccettature, basti pensare alla morte quasi totale della vinificazione in bianco senza macerazione.
Non è un caso che molti dei cantori contemporanei del naturale arrivino da altri mondi, spesso dal mixologism e dalla birra artigianale. Hanno iniziato a bere direttamente vino naturale e spesso hanno cattive opinioni di quello che oltrepassa i confini della loro esperienza. Ma non è questo che mi preme notare quanto appunto una nuova fase, che in modo confuso e troppo acritico, taglia i ponti con il passato senza farne propria l’esperienza.
Forse lo stupore o se preferite lo spaesamento è ancora la cifra distintiva, ma la riconoscibilità del vitigno è troppo spesso sacrificata e così la rivoluzione si trasforma in reazione – se mi permettete uno sconfinamento in una categoria forte – o la contestazione della tecnica diventa il dominio di questa, per tornare con i piedi per terra.
Perché c’è una questione su cui bisognerebbe smettere di fare la guerra e trovare una sintesi condivisa ed è quella del concordare che ci sia una trasformazione in atto di un movimento in una categoria merceologica: è l’arma storica dell’industria, anche di quella culturale. Non è una novità, basta esserne consapevoli.