I lettori di Dissapore sono in maggior numero uomini e se state pensando “strano, per un sito che parla spesso di cucina”, sappiate che il vostro ragionamento è sessista. A questo punto io vi rispondo che a dirigerlo è una donna e voi, mettiamo il caso, rispondete “ora mi spiego il perché di tutti quei refusi”. Sarebbe maschilismo, converrete, e in un moto di rabbia potrei alzare un dito medio, ma risulterebbe volgare da parte mia.
Un po’ come la differenza tra la foto che vedete in copertina, che è volgare, e una vecchia pubblicità maschilista- una delle tante proposte dall’industria birraria tra gli anni ’50 e gli anni’70, di casalinghe servili e birre personificate da bionde – : in comune hanno la birra e una donna, che nel primo caso esprime sessualità e nel secondo sottomissione all’uomo, addirittura mercificazione.
Concetti così banali che mi annoierei a esplicarli oltre, se non fosse che lo scatto di due gambe femminili, divaricate nell’atto di accogliere una birra artigianale, è diventata insospettabile oggetto di scandalo, nonché metafora di tutti i mali cui siamo sottoposte noi donne in quanto tali, dalla strumentalizzazione alla violenza. Una vera apologetica sull’immagine della donna, dominata dall’opinione maschile, ci sta facendo giungere alla conclusione, sbagliata, che il maschilismo sia una foto volgare.
Accade che Bonavena, birrificio artigianale campano, riposta sul proprio profilo Facebook lo scatto incriminato: è la fotografia di un bevitore che ha immortalato una lattina di So Clinch – unico esemplare prodotto in Italia di Lichtenhainer, stile tedesco affumicato e acidulo (ve ne parlammo tempo fa) – tra le cosce di una donna. Il che potrebbe essere un riferimento ai batteri endemici della flora vaginale che caratterizzano questa birra, ma direi che possiamo risparmiarci i significati figurati di fronte a quello che è un post come ce ne sono tanti sui social. Foto di donne che, proprio perché non siamo in un Carosello scandito dalla Democrazia Cristiana, mostrano il proprio corpo come e quando vogliono.
https://www.facebook.com/bonavenabrewing/photos/a.1660864614010943/3646878382076213/
Il ri-post di Bonavena viene intercettato da Eugenio Signoroni, curatore di Birre d’Italia e Osterie d’Italia, figura ormai istituzionale di Slow Food Editore, che vede in quell’immagine un “uso strumentale della figura femminile” e invita il birrificio a una comunicazione più consona al nobile artigianato brassicolo.
https://www.facebook.com/eugenio.signoroni/posts/10159329100664474
Signoroni ha ragione: per quanto non si tratti di una comunicazione ufficiale del marchio, nel condividere quell’immagine il produttore ne “approva” implicitamente il contenuto, che non restituisce né a quella lattina né alla birra artigianale in genere il giusto merito. Un merito che è anche quello di aver allontanato la birra dagli stereotipi e dalle semplificazioni tipiche dell’industria.
Signoroni ha torto, perché investe il birrificio artigianale di un ruolo che non ha: distinguere l’intero settore con una comunicazione politicamente corretta, didattica, capace addirittura di contrastare il boom pubblicitario machista degli anni Novanta.
Insomma, ri-postare una foto simile è una caduta di stile, come si dice, per un produttore, ma è giusto al giudizio di stile che mi fermerei, senza entrare nel merito dei problemi di genere.
Ci ha pensato Luciano Pignataro, che in pochissime righe di editoriale è riuscito a discolpare il maschilismo “protettivo” (protettivo, sì) degli spot che l’industria della birra produceva 50 anni fa di fronte alla foto di Bonavena, che sarebbe ancor più maschilista. Anzi sarebbe emblematica del peggioramento della condizione della donna, vittima di violenze e, tenetevi forte, oggi privata del rito del corteggiamento.
Testualmente:
“La seconda immagine è volgare nel suo esplicitare un tempo in cui non si ha più tempo, perché il corteggiamento e il desiderio sono considerati tempi morti, l’importante è andare subito al sodo, che poi fa anche tanto figo fra tatuati dal volto truce e dal cervello vuoto. E’ il frutto di un maschilismo di ritorno in cui il maschio non ha più un ruolo predefinito ma è diventato un semplice consumatore e il sesso diventa merce al tempo stesso più facile da trovare e più difficile da gestire una volta che la stessa libertà non è prerogativa solo degli uomini. E perché la visione della donna è sempre più complessa e articolata di quella dell’uomo. Da qui la violenza, le violenze atroci sempre più diffuse, frutto anche di trent’anni di tv commerciale in cui la donna sostanzialmente deve solo sculettare nell’ambito di un Bunga Bunga che invece di inorridire fa sorridere ancora”.
Sull’associazione tra la volgarità di una fotografia che ritrae una ragazza (evidentemente consapevole) e la violenza sulla donna sarò breve: asserire che un’immagine come questa possa avere anche solo lontanamente a che fare con un simile male mi ricorda tanto il terrificante “se l’è cercata” detto a proposito di una signora che ha subito violenze in abiti succinti.
Per pietà della nostra intelligenza mi soffermerò sulla conclusione, sbagliata, che il maschilismo possa essere derubricato a una foto volgare.
Volgare è Live! Non è la D’Urso, una cena a La Parolaccia, un nudo fotografato per l’autoerotismo, ma anche una birra in una bottiglia trasparente, perché, statene certi, “non si distingue per nessuna qualità particolare”, stando a una delle tante accezioni che la Treccani ci fornisce del termine. Una quantità di significati innumerevole, che però rispondono a un’unica etimologia: ciò che è volgare è proprio “del volgo”. Dunque mi perdonino i linguisti se mi permetto di asserire che la volgarità è, per antonomasia, democratica.
La volgarità è di tutti, è per tutti, anche se non appartiene a tutti e non dobbiamo per forza servircene. Volgare è la foto di una birra infilata tra le cosce.
Poi c’è il maschilismo, quel brutto morbo, che con la volgarità ha in comune una consonante sola: non è tale se non distingue tra uomini e donne, partendo dal presupposto che il sesso femminile sia inferiore. Se la volgarità parla goffamente alla nostra pancia e ci fa ridere, magari per un rutto, o ci fa coprire gli occhi come bambini per l’imbarazzo, il maschilismo non ci fa certo il favore di palesarsi così squisitamente.
Giustificare la presunta inferiorità della donna (questo è il maschilismo) impiega da sempre fatiche disumane da parte di uomini e donne. Ci siamo adoperati per renderlo sempre più insidioso, in modo che potesse diffondersi ben sotto il livello di lettura di una foto volgare.
Un lavoro così certosino, radicato, che spesso non ne distinguiamo più i confini. Ma c’è un trucco: chiedersi sempre, di fronte a un oggetto, una parola o un’immagine, se l’inferiorità della donna (o comunque la non parità tra i sessi) sia il presupposto del messaggio che veicola.
Scoprirete che alcuni testi, dietro parole che sembrano scritte per le donne, sottintendono un gran maschilismo.