La Catalogna ha un obiettivo dichiarato: entrare nel mercato mondiale del vino che conta a gomiti alti. La comunità autonoma spagnola, dai travagliati trascorsi e dall’altrettanto problematica attualità, è nota per lo storico e inappagato desiderio di indipendenza, e il settore vinicolo catalano non è da meno: da qualche anno è stata istituita dall’INCAVI (Institut Català de la Vinya i el Vi – Istituto Catalano della Vigna e del Vino) la denominazione Vins de Finca Qualificada (VFQ) per i vini già a DO (Denominació d’Origen, per intenderci l’equivalente delle nostre DOC) prodotti da aziende catalane selezionate. Lo scopo del progetto è dichiarato: migliorare il posizionamento del vino catalano nel mercato mondiale, andando a competere con i pesi massimi del settore. Un’anticipazione: secondo noi sarebbe opportuno qualche altro round di allenamento prima di salire sul ring.
Qualche piccola nozione per i tanti che probabilmente non sospettavano nemmeno che i catalani facessero vino: la regione si trova al nord-ovest della Spagna, è affacciata sul Mediterraneo, ha un’incredibile varietà geografica che va dalle zona costiere alle alture dei Pirenei, e si trova praticamente alla stessa latitudine del Lazio. Il suo vino più famoso è il Cava: ottenuto prevalentemente da uve Macabeu, Parellada e Xarel-lo (si pronuncia “ciarello”) coltivate soprattutto nella zona del Penedès, è uno degli spumanti metodo classico più a buon mercato che si possano trovare. In tema di vini fermi invece svetta su tutti la zona del Priorat, con le sue vigne prevalentemente di Garnacha tinta e Cariñena terrazzate su impervi costoni montuosi di ardesia; alcuni di essi sono talmente a strapiombo che rivaleggiano in eroicità con i vigneti liguri o valtellinesi. E, come accade in ogni zona dove per coltivare l’uva si rende l’anima a Dio, il vino è di grandissima qualità.
La menzione VFQ: pochi vini, d’antan
Ed è proprio facendo leva sui concetti di qualità e di identità che l’INCAVI ha introdotto la menzione VFQ, cui è seguito un piano di sviluppo lanciato un anno e mezzo fa dal nome #HoritzòINCAVI2025 che ha portato al riconoscimento della menzione per 7 nuovi vini. Il raggiungimento della menzione aggiuntiva VFQ passa attraverso il rispetto di requisiti talmente sfidanti che ad oggi, con più di 750 cantine solo 19 vini (vini, non cantine) possono fregiarsi della menzione. Innanzitutto questi vini devono aver ottenuto la DO da più di 10 anni e le rese per ettaro devono essere inferiori di almeno il 15% rispetto al limite fissato dal disciplinare. Il vigneto deve essere di proprietà dell’azienda così come la cantina e ogni singolo passaggio, dalla vendemmia all’imbottigliamento, deve essere tracciato. Ci sono anche altri requisiti particolari, sui quali le cantine hanno in realtà poco controllo: aver ottenuto un voto più alto da parte del comitato di degustazione rispetto alla DO relativa, oppure, testuale, “la cantina deve avere una storia di prestigio e qualità sul mercato, comprovata e riconosciuta, da almeno 10 anni”. Ultimo, ma non meno importante, l’affinamento del vino deve effettuato in botti di rovere, con una capacità massima di seicento litri.
L’ultimo requisito è stato concretamente verificato in una serata organizzata dal Delegato del Governo della Catalogna in Italia Luca Bellizzi, in collaborazione con RomaWineExperience, per saggiare la stoffa di questi VFQ. Una stoffa spessa, a dire il vero: nei vini assaggiati, tre bianchi e tre rossi, l’uso del legno medio/piccolo in concomitanza con la mano pesante dei cantinieri, ha inciso notevolmente sul pattern organolettico dei vini VFQ.
I tre bianchi erano dominati dal legno tanto al naso quanto al palato, con l’aggiunta di note riconducibili ad ossidazione del vino in due campioni su tre, a completare un quadro di, ahimè, scarsissima grazia. I tre rossi invece, pur sopportando meglio l’impatto della botte, ne hanno comunque subito l’impeto finendo col raccontare molto poco dei diversi territori di provenienza. Se si pensa che sono stati esaminati praticamente un terzo dei vini VFQ, ne esce un quadro non certo idilliaco per le mire dell’INCAVI.
La strada scelta col progetto VFQ sembra essere già stata battuta 25-30 anni fa, con l’uso delle botti di legno medio/piccole a fungere da indicatore della qualità di un vino. Il contesto però era assai differente, con il vino visto ancora come un alimento e non ancora considerato anche come bene di lusso, fatta eccezione per poche selezionate etichette. Il successo della botte si risolse poi in un esteso abuso del legno, evenienza che stimolò in molti produttori una reazione oppositiva. Ecco quindi arrivare al successo vinificazioni sottrattive, magari di ispirazione ‘naturale’ (mio Dio, l’ho detto), condotte in materiali inerti quali cemento o anfore e che esaltassero le caratteristiche del territorio di provenienza. L’agilità è la caratteristica maggiormente ricercata oggi dai consumatori, in luogo della muscolarità dei vini di qualche lustro fa.
In questo contesto i VFQ catalani, ad oggi e per la parziale prova d’assaggio effettuata, sembrano essere degli invitati arrivati in ritardo a un matrimonio, per giunta quello sbagliato. Certamente non è consigliabile seguire solo le mode del mercato vinicolo e certamente è positivo istituire regole pensate per i propri territori e indipendenti dal gusto del tempo; il peccato è non essere riusciti a trasmettere qualcosa della Catalogna oltre il muro di legno, unitamente alla poca grazia trasmessa nel calice. E se si intende competere con l’élite dei vini mondiali queste sono prerogative imprescindibili da raggiungere.