Il sake è arrivato nei ristoranti, e a differenza della birra artigianale è qui per restare

Come ha fatto il saké a trovare un suo spazio fisso nelle impenetrabili carte dei vini italiani?

Il sake è arrivato nei ristoranti, e a differenza della birra artigianale è qui per restare

Negli anni, le carte delle bevande dei ristoranti italiani si sono dimostrate fieramente impervie ad accogliere prodotti diversi dal vino. Dai tempi pionieristici di un Luca Gardini in forma smagliante dal Cracco sotterraneo in via Victor Hugo in cui il pairing prevedeva un passaggio con succhi di frutta Pago (ok, forse l’iniziativa era discutibile, ma era giusto citarla), al fulmineo passaggio delle carte delle acque fino al tormentato e fallimentare rapporto con la birra artigianale, i casi in cui la selezione beverage si aprisse a qualcosa oltre al nettare di bacco sono rari. Tuttalpiù dettati dalle passioni e hobby dei singoli responsabili, o dalle intuizioni di qualche cuoco particolarmente ispirato, vedi gli shot di vodka di Scabin o i suoi magistrali abbinamenti con la Moretti Grand Cru (sigh) o il caffè, o l’aperitivo con il Negroni invecchiato nei caratelli da Philippe Leveillé al Miramonti l’Altro.
Eppure, da qualche anno, un prodotto si sta insinuando nelle abitudini gourmet italiane, da lidi più inaspettati: è il nihonshu, meglio conosciuto al grande pubblico come saké.

Il sakè è solo fascino per l’esotico?

sake

Dal punto di vista gastronomico, l’appeal del Giappone (o del presunto tale) sembra essere inesauribile. Siamo ormai siamo saldamente in testa alla classifica europea del consumo di sushi, nonostante l’infinita retorica sulla tradizione e l’identità -qualcuno direbbe sovranità- italica, e già nel 2018, dopo una moltiplicazione per tre dei volumi in meno di un decennio, abbiamo superato la Gran Bretagna nell’importazione di Sake, diventandone il secondo maggior bevitore in assoluto dopo la Francia. Un dato, quello transalpino, che non deve stupire, visto che anche un monumento dello Champagne come Richard Geoffroy si è dedicato al vino di riso dopo essersi ritirato dalla sua posizione di chef de cave di Dom Pérignon.

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Due dati che la dicono lunga, ma non devono comunque essere interpretati come conseguenti l’uno dell’altro: si tratta infatti di due fenomeni appartenenti a fasce di mercato ben distinte, con la moltitudine di opportunità di consumo low cost che caratterizzano l’offerta di sushi italiana, vedi l’infinità di “all you can eat”, mentre il sake ha saputo ritagliarsi uno spazio ben più esclusivo e di prezzo premium. Un risultato che parte forse dalla nostra malcelata esterofilia, e sicuramente supportato anche dall’immagine elegante del prodotto, che gli ha permesso di farsi spazio nelle selezioni di molti importanti sommelier italiani. L’essenziale, secolare grazia dello Shodō, la calligrafia giapponese, rende le sue etichette tanto incomprensibili (ma niente che un sake sommelier non sappia interpretare) quanto appetibili per l’alta ristorazione. Molto di più, ad esempio, della migliore birra artigianale italiana, magari in lattina, e battezzata con un nome dal doppio senso pecoreccio comprensibile solo al birraio (ahimé, i riferimenti al movimento craft italiano saranno diversi, abituatevi). Un punto magari superficiale ma da non sottovalutare, e certo non l’unico elemento del successo italiano del nihonshu.

Un approccio strategico

sakè di riso giapponeseUn kurabito -produttore di sake- all’opera

Una parte essenziale di questo successo è stata sicuramente la strategia con cui i player nipponici si sono approcciati al mercato italiano. Nessuna iniziativa autonoma di qualche produttore né l’ordine sparso di una raffazzonata associazione di categoria, ma un’inesorabile infiltrazione dall’alto, che ha creato curiosità e stabilito subito i valori in campo. Si è partiti dai sommelier bistellati e tristellati, coinvolti in degustazioni ed eventi fighissimi, generando a cascata l’interesse prima e soprattutto degli addetti ai lavori. Si è poi proseguito con in primi eventi per il grande pubblico, ricordo i pionieristici Milano Sake Festival dal 2014 al 2017 in Cascina Cuccagna, in cui l’associazione La Via del Saké proponeva i primi corsi certificati WSET, e l’inizio delle attività della Sake Sommelier Association italiana circa nel 2016. Da lì la crescita è stata verticale.

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Tutte attività rigorosamente supportate dalle istituzioni, con la presenza di importanti produttori e patrocinate dalle prefetture di origine: il confronto con le strategie per l’export di tante nostre produzioni è evidentemente impietoso. Un’attività di formazione efficace, che ha rapidamente creato una generazioni di professionisti che ha dato il via alle tante aperture che, soprattutto sull’asse Milano-Roma hanno creato un’offerta specializzata e un relativo pubblico fidelizzato.

Il valore gastronomico del saké

sakè sushi giapponese

Certo, è figo e ben rappresentato, ma il mercato italiano resta ostico se un prodotto non è poi performante a tavola, e qui Il sake ha decisamente sbancato. La golosità sapida che sottende la cucina giapponese in forma di salse e paste amminiche, salsa di soya e miso su tutte, trova il suo corrispettivo tanto nel glutammato rilasciato nelle lunghe cotture del pomodoro o delle carni della nostra cucina, quanto nelle sapidità fermentative di salumi e formaggi. Un’assonanza a cui il sake offre un supporto armonico con la sue dose di umami sviluppata grazie al koji, e le leggere dolcezze che ricordano il creme caramel e l’avena. Un giocare decisamente più sul sicuro rispetto (aridaje) alle acidità più spinte delle birre sour o gli amari delle pale ale che, pur molto interessanti nell’arrotondare le sapidità, non sono mai stati totalmente capiti e recepiti, e il periodo birrario in cui si faceva gara a chi ce l’aveva più luppolata non ha aiutato.

Quello che ha decretato l’inaspettato successo del sake in Italia è stato quindi un mix irresistibile di prodotto e strategia, che ha creato un fenomeno ormai radicato e che sembra destinato a durare. In attesa della prossima moda passeggera, vedremo se qualcun altro prenderà esempio.