Toglietegli il vino! Lo diciamo di solito di chi sembra parlare o agire senza molta razionalità, come in preda all’ubriachezza. Per esempio: il governo del Giappone, che invita i giovani a bere più alcol. Lungi da noi parlare male degli alcolici a priori, ma la perplessità nasce da considerazioni più generali. Che portano a domandarci cosa deve fare uno Stato rispetto alle “cose che fanno male”: proibirle? Consentirle ma tassandole per disincentivarle? Farci sopra un sacco di soldi? Perché il punto, gira e rigira, è tutto lì: la schizofrenia delle istituzioni nei confronti di certe sostanze e di certi comportamenti. Ma partiamo dall’ultima notizia.
In Giappone la pandemia ha colpito duramente le vendite di alcolici, soprattutto quelle nei locali pubblici come le Izakaya, la versione nipponica dei nostri pub e osterie, più o meno. Le restrizioni anti-Covid sono durate a lungo, più che in altri paesi; la ripresa economica è stata più lenta del previsto; sono arrivate nuove ondate; poi la guerra in Ucraina; poi l’inflazione globale. Insomma il mercato degli alcolici in Giappone non se la passa bene – come tutti gli altri mercati, in tutti gli altri luoghi.
Il governo di Tokyo però ha pensato bene di intervenire, e lanciare un un concorso per trovare nuovi modi per incoraggiare i giovani a bere di più. La campagna “Sake Viva!”, come riporta la CNN, invita i partecipanti a presentare idee su come “stimolare la domanda tra i giovani” attraverso nuovi servizi, metodi promozionali, prodotti, design e persino tecniche di vendita che utilizzano l’intelligenza artificiale o il metaverso. “Il mercato interno delle bevande alcoliche si sta restringendo a causa dei cambiamenti demografici come il calo delle nascite e l’invecchiamento della popolazione, e i cambiamenti nello stile di vita dovuti all’impatto del Covid-19”, si legge sul sito, aggiungendo che la competizione mira a “fare appello alle nuove generazioni … e rivitalizzare l’industria”.
L’iniziativa ha la supervisione dell’Agenzia delle Entrate giapponese, e qui viene il punto: come in Italia e in molti altri paesi, sulle vendite di alcolici c’è una tassa, volta a disincentivare un consumo ritenuto dannoso, ma che va a finanziare in maniera non indifferente le casse dello Stato. Tanto che poi se quel consumo ha una flessione – come evidentemente sarebbe auspicabile, data l’impostazione iniziale – i governi si preoccupano per il mancato guadagno e mi vanno in panico come quello di Tokyo.
Lo Stato e la salute
Uno Stato deve preoccuparsi della salute dei propri cittadini? Se fosse mosso da un principio meramente morale, uno Stato del genere sarebbe uno Stato-genitore, uno Stato etico: espressione che sembra bella ma che nella storia ha nascosto le peggiori dittature. Gli stati moderni no, non fanno un ragionamento così banale e diretto: si preoccupano sì del benessere dei propri cittadini, ma per evitare conseguenze peggiori per la collettività.
Si potrebbe dire, e spesso si dice: che male faccio agli altri se mi rovino di grappa fino a distruggermi il fegato? Oppure se in auto non mi metto la cintura? La libertà personale però trova un limite nella gestione della cosa pubblica, e della sanità in particolare: nel momento in cui io sfondando il parabrezza col cranio vado ad affollare un pronto soccorso, nel momento in cui con una cirrosi epatica tolgo il posto letto a un disgraziato che si è beccato un tumore senza colpa, e nel momento in cui – in entrambi i casi – vado a gravare sulle casse dello Stato che ha deciso di sobbarcarsi in tutto o in parte le spese sanitarie, allora sì che il governo può metterci bocca. Non sarebbe giusto parlare di Stato etico, ma di una conseguenza dello Stato sociale. La tassa sul superalcolico, o la multa che mi becco se non metto la cintura, è in questo caso una sorta di contributo anticipato per la maggiore spesa che lo Stato va a sostenere. Ma è anche una misura di ordine pubblico e prevenzione generale: se la grappa costa 60 euro, magari ne compro o ne bevo di meno; se la multa per eccesso di velocità ammonta a 300 euro, forse vado più piano.
Tutto giusto quindi, tutto regolare. In teoria sì, ma poi come sempre quando ci sono di mezzo i soldi, è un casino. Perché quegli introiti fanno comodo, sono una parte del bilancio, e guai se vengono meno. Lo Stato etico è pur sempre uno Stato capitalista, e allora si ritrova nella schizofrenia di chi da un lato opera affinché i comportamenti dannosi per la salute diminuiscano, dall’altro si augura e fa in modo che quei comportamenti restino tali. Chiunque di noi sia mai stato multato per aver inconsapevolmente percorso 5 metri in una ZTL, per esempio, ha avuto forte l’impressione che l’amministrazione fosse preoccupata, più che di salvaguardare il bene pubblico, di farlo col relativo bilancio.
Alcol, fumo, cannabis, e carne
D’altra parte, c’è un’altra schizofrenia. Le cose che fanno male – eh sì, sembra di sentir parlare mamma e papà – sono tante, e le leggi non le trattano tutte allo stesso modo. Sull’alcol, per esempio, in Italia c’è la cosiddetta accisa, un’imposta indiretta, come l’Iva. Ma potrebbero arrivare restrizioni peggiori: in seguito a ricerche scientifiche che sembrano confermare il risultato “nessun livello sicuro”, ovvero che bere fa male anche se fatto con estrema moderazione, l’Unione Europea è stata molto vicina a parificare l’alcol al fumo, con aumenti di dazi e accise; divieti di spot e sponsorizzazioni; misure volte a rendere gli alcolici meno facili da trovare in commercio. Per il momento il rischio è stato scongiurato, ma secondo alcuni è solo questione di tempo.
Il fumo appunto: qui lo Stato ha proprio il monopolio, quindi non guadagna solo dalle imposte ma anche dalle vendite. Il monopolio è da un lato un modo per controllare il consumo di un bene considerato ancora più pericoloso, dall’altro però va a finanziare direttamente le casse statali, quindi disincentivo sì, ma fino a un certo punto. Molto simile è la questione rispetto al gioco e alle scommesse: monopolio statale per matenere il controllo di una situazione dannosa – e negli ultimi anni gli studi sulle ludopatie sono aumentati, come i casi purtroppo – ma d’altro canto lo Stato moltiplica le tipologie di concorsi e le pubblicità delle lotterie.
Se parliamo poi di cannabis, l’incoerenza è di altro tipo ma ancora più incomprensibile. Proprio qualche giorno fa Gherardo Colombo – non proprio un fattone da centro sociale – sul Domani sottolinea l’irrazionalità dell’atteggiamento statale rispetto ad hascisc e marijuana, se paragonato a fumo e alcolici: “se si consente l’acquisto di alcool e tabacco, non ha senso vietare quello della cannabis, che per altro ha controindicazioni mediche decisamente meno drammatiche”. E invece no, la cannabis rimane illegale. Per non parlare delle sostanze psichedeliche, molte delle quali non sono neanche tecnicamente droghe, dato che non danno né dipendenza né assuefazione.
Qualche mese fa, una papera spettacolare simile a quella del Giappone col sakè, l’aveva fatta la Ue con la carne: con la campagna “become a beeferatian”, diventa carnetariano, era riuscita d’un colpo a contraddire una lenta ma sicura tendenza a favore di un’alimentazione sostenibile, una dieta più salutare, un raccomandabile ricorso a proteine alternative, eccetera.
Tutto questo per dire cosa? Non lo so, forse solo il consueto adagio della pagliuzza e della trave: facciamo presto a deridere, o criticare, il Giappone. In questa schizofrenia pubblica ci siamo tutti dentro.