La pratica di affinare il vino sott’acqua non vanta origini greche, fenicie o romane. Per una volta non si può tirare in ballo la tradizione secolare, poiché è tutta materia da XXI secolo. Casomai era tradizione dell’antica Roma miscelare il vino con l’acqua di mare, ma non ne ho ancora trovato uno che oggi voglia rispolverare tale usanza.
Come ci è venuta l’idea di affinare vino sott’acqua
Da dove nasce dunque l’uzzolo odierno di voler piazzare bottiglie di vino a stagionare nelle profondità marine o lacustri? La scintilla partì da un ritrovamento fortuito: nel 1998 alcuni sommozzatori riemersero dai rigori del Mar Baltico con una più che discreta quota di bottiglie di Champagne Heidsieck, recuperate dal relitto della Jönköping, una nave svedese affondata nel 1916 da un sottomarino tedesco.
Dagli appunti dei fortunati degustatori pare che l’ottantina di anni di ulteriore quanto involontario affinamento sottomarino abbiano inciso positivamente sul vino. Ancora più sorprendente fu il ritrovamento (e l’assaggio) nel 2010 di altre bottiglie di Champagne, sempre nel Mar Baltico (se doveste mai spedire del vino in Scandinavia, ecco io il mare lo eviterei). Stavolta il naufragio è datato attorno al 1840, e le 168 bottiglie recuperate erano di Champagne Veuve Clicquot, Heidsieck e Juglar (dal 1832 rinominato Jacquesson). Anche questo assaggio di vini di oltre un secolo e mezzo di vita lasciò i degustatori stupefatti per l’inaspettata bevibilità riscontrata.
Giá dunque il ritrovamento del 1998 stimolò la curiosità per l’affinamento sottomarino di alcuni produttori spagnoli, californiani e anche italiani; quello del 2010 aggiunse carburante al motore: una pletora di produttori, in aumento tutt’oggi, ha individuato nel profondo blu la cantina ideale.
I vantaggi (e l’irrilevanza) dell’affinamento sottomarino
I vantaggi elencati da queste aziende sono: la temperatura costante 365 giorni l’anno senza bisogno di impianti di climatizzazione, l’enorme spazio a disposizione, l’assenza di luce sulle bottiglie, l’impermeabilità del tappo all’acqua di mare, e soprattutto la pressione esterna che agisce su tappo e bottiglia (non si sa come quest’ultima possa migliorare la qualità del vino). Tutto giusto, fino a quando non si sostiene che questo affinamento porta a una maggior complessità del vino rispetto l’omologo classicamente affinato in cantina.
Ad oggi i vari studi effettuati comparando vini affinati sott’acqua con i fratelli affinati in cantina non hanno mostrato differenze significative, sia dal punto di vista organolettico che, banalmente, della composizione chimica (vedi ad esempio N. Birkić et al., 2023). Detto fra noi, ma davvero qualcuno si aspettava miracoli dall’affinamento sottomarino? Cosa ci si aspettava la creazione di materia? Se le premesse sono quelle di mimare l’ambiente di cantina, il vino affinato sott’acqua me lo aspetto come uscito da una classica cantina; magari con una maggiore, diciamo così, riproducibilità da bottiglia a bottiglia, grazie alle stabili condizioni sottomarine; magari non soggetto al rischio di ossidazioni premature per colpa di tappi di sughero traditori. Non mi creo però l’aspettativa di un arricchimento o una maggior varietà di profumi o sapori, semplicemente perché non avrebbe ragion d’essere.
Attenzione: non pensiamo certo che la pratica sia solo fuffa: essa risolve il problema di affinare tante bottiglie di vino, e in condizioni quasi ideali, per chi non possedesse spazio a sufficienza; si potrebbero anche confrontare sostenibilità e risparmio energetico delle due pratiche, che magari in alcuni casi potrebbe convenire anche all’ambiente far dormire le bottiglie coi pesci (come Luca Brasi). Ma appare lampante che, ad oggi, l’affinamento del vino sott’acqua viene usato solo come potente strategia di marketing.
Da non sottovalutare che le bottiglie sottomarine, una volta uscite dall’acqua con tutte le loro belle concrezioni e i ricordi di mitili bivalvi, vengono vendute a un prezzo n-volte superiore alle loro consorelle terrestri. A mero titolo di esempio, e senza che se ne abbiano a male i lucani: l’Aglianico del Vulture Superiore DOCG Carato Venusio della Cantina Di Venosa normalmente costa attorno ai 25€. Portato coi camion a Portofino, quasi 1000 km, e fatto riposare per soli 6 mesi a 50 metri circa di profondità, mi riemerge con un prezzo di mercato di 150€. Ricordiamo: senza alcun comprovato miglioramento qualitativo.
Per cui ben vengano le sperimentazioni e le bottiglie incrostate di balani e tubi di vermi calcarei sulla tavola, basta che non si parli di superiorità organolettica perché, ad oggi, non se ne è avuto riscontro.