Partiamo da un presupposto: è nell’interesse di tutti far sì che le nuove generazioni abbiano una cultura del vino. Un interesse economico, perché il nostro Paese produce circa 50 milioni di ettolitri di vino, e non si può pensare che vadano tutti sui mercati esteri. Un interesse sociale, perché – per quanto i genitori preferiscano non pensarci – anche le nuove generazioni berranno, e la cosa migliore che si può fare sul tema è insegnargli a bere bene e consapevolmente, ma non con la stessa accezione con cui lo dicono le pubblicità delle multinazionali della birra.
E un interesse culturale, perché l’Italia del vino ha radici antiche, che sarebbe un peccato perdere: qualcuno, domani, si dovrà occupare delle vigne e delle cantine, portando avanti il grande lavoro fatto fino a ora per costruire tante eccellenze competitive nel mondo.
Dunque, è ora di pensare a come educare gli adulti di domani al mondo del vino. Ma la verità è che, se lo stiamo facendo, lo stiamo facendo nel mondo sbagliato.
I consumi pro capite di vino degli Italiani sono in caduta libera da decenni. Oggi, beviamo circa trenta-quaranta litri di vino all’anno, più o meno la metà di quanto non facesse la generazione dei nostri nonni a metà del Novecento. I motivi sono diversi e – direte voi – oggi si beve meno ma si beve meglio.
Eppure – diciamo noi – i tavolini degli aperitivi degli “young adults” sono pieni di bicchieri di Prosecco a basso costo e di Spritz, mica di Baroli o Brunelli.
Il vino non ha solo smesso di essere quotidiano, ha smesso di essere trendy. In una parola che racchiude i due significati, ha smesso di essere popolare, e questo è sicuramente anche colpa nostra.
È colpa di chi ha messo una barriera al consumo di vino, confondendo il fare cultura con il nozionismo. Di chi ha preteso che per ordinare una bottiglia di vino bisognasse conoscere abbinamenti, vitigni, guardare, annusare, percepire sfumature al naso e poi all’assaggio e, infine, saper fare i commenti giusti. Di chi si è dimenticato che il vino può essere anche solo bere bene, piacevolezza di gustare un bicchiere, convivialità di un brindisi.
Basta mettersi nei panni di un ragazzo al primo appuntamento con la sua fidanzata (o viceversa, eh, ché la consuetudine di far assaggiare il vino all’uomo del tavolo è odiosa quanto il menu senza prezzi) per capire quanta difficoltà può esserci nell’ordinare una bottiglia di vino. Se lascio fare al sommelier, significa che non sono capace di scegliere. Se seleziono una bottiglia tra le decine e decine in carta, devo sperare di non incontrare il sorrisetto di disapprovazione di chi me la servirà. Poi devo affrontare l’assaggio, che porta con sé il carico d’ansia di un’orale di maturità, senza che il premio siano le vacanze estive più belle della mia vita.
Insomma, un percorso a ostacoli fatto di inutili tecnicismi e della voglia di dare ascolto a quella vocina nel cervello che ripete all’infinito “un litro di vino della casa, grazie”.
Ecco, possiamo fare meglio di così. Possiamo raccontare il vino in maniera più semplice, lasciando i corsi Ais e Onav a chi voglia fare il sommelier, e accogliendo chi vuole bere una buona bottiglia senza addentrarsi in una foresta di vitigni e annate trabocchetto. Possiamo costruire una proposta che sia una via di mezzo tra il quartino dell’osteria e la sensazione di affogare in un mare di vini sconosciuti. Possiamo consigliare, indirizzare, ascoltare mettendo un tantino da parte l’arroganza della nostra competenza.
Possiamo (e dobbiamo) fare in modo che gli aperitivi dei nostri ragazzi si ripopolino di vini buoni, di vitigni interessanti, facendo in modo che questo abbia per loro lo stesso bassissimo livello di stress dell’ordinare un Aperol Spritz.
Basta ricordarsi che, per la maggior parte dei consumatori o potenziali tali, il vino è un piacere, non una materia di studio.