La litania vorrebbe giustificare la sconfitta. “I birrifici artigianali sono troppi”, si replica ogni qual volta il rilevatore di produttori italiani indipendenti segni il segno più sull’anno precedente, a fronte di una quota di mercato invariata o pressoché. Lo ripete il birraio sbaragliato, imputando il proprio insuccesso all’esistenza di una concorrenza, e pure l’imprenditore con una visione, temendo di vedere il proprio successo diluito in una fetta di mercato destinata a non smuoversi dal 3%.
Come se in quel 3% – la quota cui la birra artigianale si assesta, oramai da anni, stando all’ultimo report di Assobirra – dovessero per forza stagnare i birrifici artigianali, minacciati da se stessi disillusi da quello che è un dato di fatto: all’aumentare dei produttori non è corrisposto un aumento della percentuale di prodotto venduto, in proporzione a quello industriale.
Una profezia che si autoavvera? L’impegno è ostinato, ma l’impressione è che il settore craft italiano stia finalmente facendo i conti il naturale darwinismo del mercato. Mai come ora è facile distinguere un birrificio artigianale valido tra i tanti, quelli semplicemente irrilevanti o, peggio, ostili all’immaginario socialmente condiviso della birra artigianale – quella “pesante”, “inutilmente costosa”, “strana”, si intende – .
L’identità è di chi ce la fa
Un buon campione è l’edizione del Beer Attraction che si è appena consumata. Credo che qualunque avventore mediamente informato del mega polo fieristico di Rimini, passeggiando nel padiglione dedicato ai produttori indipendenti, sia stato in grado di indovinare dove bere bene, giudicando i produttori dall’etichetta. È sbagliato farlo? Sì, ma così succede tutti i giorni, fuori dai locali specializzati – e alcune volte pure in quelli -, nei bar, nelle pizzerie e nei pub lignei votati alla Guinness che danno una possibilità all’artigianale. Si sceglie da una carta che nella migliore delle ipotesi indica gli stili birrari o, al bancone, dai medaglioni apposti sugli spillatori, cercando di districarsi nella semiotica naive dell’artigianale. Il risultato è che, quando non si conoscono i produttori proposti – i birrifici artigianali sono 1.300 circa – la speranza è una sola: che all’identità grafica più accattivante corrisponda una pinta all’altezza delle aspettative.
Così è rinfrancante, buffamente consolatorio, notare come (buoni) produttori artigianali abbiano colto e fatto loro la muscolarità che è tipica degli eventi B2B. A partire da quello che è l’elemento su cui si fonda una grande fiera: il mocassino. Scherzo: lo stand. Cito tra i tanti Birra dell’Eremo, con il suo corner di derivazione simpsoniana. O War, che ha trasformato il classico corner di compensato in una “pescheria”: un modo impattante per presentare la nuova American IPA “Pesci in faccia”? Probabilmente. Una sorniona autoironia in riferimento al luogo comune sulla birra artigianale, che quando non è fatta bene è piena di puzzette? Non andiamo troppo per il sottile: alle fiere bisogna emergere tra i tanti, ed è bello che a farlo siano i produttori bravi, in una sorta di coerenza tra immagine efficace e qualità senza la quale la birra artigianale non può superare i propri limiti.
Ce ne fossero, di bravi produttori con una personalità semiotica e produttiva come Rentòn, Dulac, Birra Perugia o La Buttiga, che al grande evento ha pensato bene di presentare i dipendenti in kimono ottenendo l’attenzione di tutti – le birre? ce ne fossero di più, pure di quelle -.
Una necessità comunicativa che si coglie anche vagliando le nuove generazioni birrarie: anche qui si distingue facilmente, di primo acchito, chi è destinato a farcela e chi no. Tra i miei migliori auspici, Wild Racoon, l’immagine (ben) ispirata alla cinematografia che ha fatto la storia e gli stili più nettamente rappresentati, attraverso birre perfette e prive di virtuosismi innecessari – okay, produce anche una “pastry sour”, ma credo non potesse farne a meno -. Tout simplement.
La normalizzazione degli stili
Ed è questa la seconda, enorme, cartina al tornasole di una birra artigianale più belligerante e incisiva, scevra da barocchismi spesso spiacevoli (come le imperial stout al peperoncino) e volta al mercato: la normalizzazione degli stili. Pare, e ripeto pare, i birrifici artigianali abbiano compreso che il pubblico bevitore vuole bere basse fermentazioni e IPA. Lager e luppolate. Tedesche beverine ma fatte bene e birre più impegnative amare, perdutamente amare. Magari non amarissime, ma in fondo basta aggiungere una linea a parte per prendere le distanze dagli estremismi.
Accade dunque che gli stili vengono semplificati, in virtù della domanda: birre beverine, magari fatte meglio della lager industriale, e IPA, NEIPA, HAZY IPA (ma quanto ci piacciono le Hazy IPA?). E che due tra i birrifici più rilevanti in Italia dedichino linee a parte per le super-luppolate e per le imperial stout, come fanno Birra Mastino e Birrificio Lambrate. Perché esiste la birra artigianale e la birra artigianale “non ordinaria”.