In un periodo come questo, di discussioni aggressive nel mondo del vino a causa della scelta dell’Irlanda di porre le health warning in etichetta, di opposizioni patriottiche a questa scelta e di opinioni discutibili espresse da personaggi ancor più discutibili, sento il bisogno quasi fisico di captare le tante onde astiose e dirigerle verso la mia persona. Perché sì, è ora che il mondo del vino italiano torni a scandalizzarsi non già di due righe di avvertimento in etichetta (che, ben inteso, se si vuol vendere il proprio vino in U.S.A. si è costretti a far stampare già da dei lustri, senza che del resto nessuno abbia mai boicottato gli yankee per questo; sorvoliamo), ma che si offenda e che mi offenda per una pratica che noi italiani non avremmo mai neanche osato sognare: l’hyperdecanting.
Noi, popolo che oramai guarda con sospetto quei contenitori di vetro dalle forme pretestuose: i decanter. Noi, gli stessi che decenni fa scaraffavamo nel decanter anche del Tavernello e che oggi utilizziamo quella brocca dai fianchi inusitatamente larghi solo per adornare la tavola con l’aiuto di un tulipano. Noi, che abbiamo imparato che il vino può benissimo respirare nel giusto calice, senza chiamare in causa altra vetreria. Noi mai oseremmo vilipendere il vino per mezzo di elettrodomestici; tra l’altro gli antichi romani non lo hanno mai fatto, e noi amiamo paragonarci a loro per ammantare di sacra giustizia le nostre azioni (sempre tralasciando il modo in cui maltrattavano il vino. O le persone).
Le origini
La provocazione arriva dal mondo anglosassone, gente che ama sì il vino ma che si ostina a trattarlo come una semplice bevanda, non come un simulacro, dunque può ancora permettersi il lusso della sperimentazione. Il teorico dell’hyperdecanting è Nathan Myhrvold, da Seattle. L’uomo è stato CTO presso Microsoft, per poi reinventarsi cuoco visionario, ed è co-autore di Modernist Cuisine, un’enciclopedia della cucina del prossimo millennio, dice.
Il buon Myhrvold, un bel giorno dei primi anni 2000, pensò al vino rosso e come il contatto con l’aria in genere lo migliori, favorendo l’espressione del bouquet olfattivo e levigando i tannini. Da buon americano pensò: “perchè mai aspettare che l’aria faccia il suo corso naturale quando ho qui un frullatore, che massimizza il contatto aria-vino? Anzi, secondo me il risultato sarà anche migliore. Va là che lo provo!“. L’ipotesi formulata è che questa tecnica possa migliorare l’espressione dei vini rossi di fascia media, i cosiddetti cheap wines. E ci credo: nemmeno il buon Myhrvold ha mai avuto cuore di hyperdecantare un La Tache da migliaia di euro. Certo che puoi andare con una Bentley sullo sterrato, ma perchè mai dovresti?
Negli anni seguenti vari esploratori hanno fiondato litri di vino nei frullatori per vedere l’effetto che fa, YouTube ne è testimone. I risultati pare non abbiano mai soddisfatto le aspettative create dalla ‘teoria’ di Myhrvold, un uomo dal cognome che pare uscito anch’esso da un blender.
Ma dato che noi siamo persone curiose e ci fa difetto la vergogna, abbiamo sacrificato del buon vino per verificare se l’hyperdecanting ne migliori realmente le qualità oppure sia solo un vilipendio alla più sacra delle bevande.
Il test
La prova è stata effettuata aprendo una bottiglia di Cannonau di Sardegna DOC Falcale 2020 Piero Mancini e destinandola a tre differenti contenitori: un calice, un decanter e (che domineddio ci perdoni) un frullatore. Una volta versato nei primi due contenitori si è atteso 10 minuti per permettere al vino di aprirsi e poi si è proceduto con l’analisi organolettica; per l’hyperdecanting il vino è stato frullato per 20 secondi, quindi è stato versato nel calice e testato.
Il calice
Senza affrontare il tema ‘colore’, invariato fra i tre campioni, passiamo direttamente al profumo del vino nel calice: classico Cannonau, ma parte terroso; pian piano emergono intense note di ciliegia e arancia rossa, di pepe, un sentore ematico e cenni di alloro e mirto (sì sì, vià vi vedo “eh bravo, Sardegna quindi mirto, così son buoni tutti”. Osservazione più che legittima, vi esorto a verificare). In bocca il vino è bello intenso, con un corpicino affatto esile, tannino molto morigerato, finale amaricante.
Il decanter
Premessa pedante ma doverosa: decantare è un’operazione che si effettua per separare un liquido dai propri sedimenti versandolo da un contenitore ad un altro, nello specifico dalla bottiglia al decanter. Se abbiamo dei sedimenti ci troviamo di fronte a un vino non filtrato oppure a un vino datato, dove i tannini hanno avuto tempo e modo di polimerizzare e di precipitare sul fondo della bottiglia. In quest’ultimo caso va anche tenuto conto che un vino rimasto per lunghi anni in bottiglia non trae troppo beneficio da un contatto ampio e violento con l’aria. Un esempio calzante? Dormite beati per 10 anni e vengono a svegliarvi con una vuvuzela: non auspicabile come situazione.
Nel nostro caso abbiamo scaraffato una modica quantità di vino giovane, il decanter non sarebbe servito affatto, ma vogliamo comunque confrontare il suo effetto con il calice e con l’hyperdecanting. E l’effetto si percepisce, in quanto nel decanter il vino ha espresso maggiormente i propri profumi, accentuando i toni fruttati a scapito delle altre sfumature (sentore terroso e di erbe aromatiche), appase più soffuse e moderate. Al palato il vino appare tale e quale al fratello che ha soggiornato solo in calice, niente di più, niente di meno.
L’hyperdecanting
Veniamo al mostro dell’ultimo quadro: l’hyperdecanting; o semplicemente ‘vino frullato’, se siete amanti del verismo. L’idea alla base di tutto è l’apertura rapida del bouquet e lo smussamento dei tannini al palato. Ci sono però almeno un paio di effetti collaterali di questa ossigenoterapia a mezzo tornado già facilmente ipotizzabili in fase preliminare: 1) il contatto violento con l’aria priverebbe il vino dei suoi profumi più delicati e rarefatti, e 2) il vino nel frullatore si scalda, accentuando l’effetto collaterale numero 1 e incidendo anche sulla sua qualità organolettica (si percepisce maggiormente l’alcol, sia al naso che al palato).
Già solo l’analisi costi-benefici consiglia di lasciar stare, ma noi abbiamo comunque regalato venti secondi di tortura a quel povero nettare di Bacco e poi giù nel calice, chiedendo scusa a vignaioli, cantinieri e pure al Ministro Lollobrigida, dimostratosi sensibile alla sacralità della bevanda.
Il risultato è stato un completo tramortimento del profumo del vino, con impatto al naso praticamente dimezzato. A prevalere è un sentore ferroso, con minimi richiami a frutta e terra. E in bocca? Pessimo. Pes-si-mo. Signori, ho ucciso un vino: il connotato principale è un amarore sovechiante, con il paradosso che le durezze sembrano addirittura accentuate, tannino compreso.
Epilogo
L’esito del test è scontato: l’hyperdecanting è una tecnica buona solo per vandalizzare del vino a scopi ludici, ma certo non ha dimostrato l’efficacia proposta. Il vero paradosso è che, dall’analisi dei campioni, proprio la tecnica che avrebbe dovuto levare dalle scatole il tannino ne ha accentuato l’effetto. Il buon Myhrvold avrebbe fatto meglio a lasciar stare il vino e dedicarsi allo sviluppo di versioni di Microsoft Word che non crashassero ogni qual volta un cristiano si fosse azzardato a inserire un’immagine in un testo scritto. In definitiva, se avete un bel vino rosso e volete farlo respirare, un calice adeguato è lo strumento adatto allo scopo.