Claim pioneristici, innovazioni tecnologiche, etichette storiche diventate sotto-stili, ma soprattutto, l'”invenzione” di uno stile, la birra stout. Vi spieghiamo perché la Guinness è la birra scura più famosa al mondo e perchè, soprattutto, merita di esserlo, raccontandovi la sua storia.
Se vi è mai successo di spinare birre, possibilmente artigianali, a qualche evento o festival, o anche semplicemente di origliare le richieste degli utenti al bancone di un pub, vi sarà capitata prima o poi alle orecchie, di certo, una situazione di questo tipo: PUBLICAN: “Cosa posso farti bere?” CLIENTE: “A me piacciono le birre scure… Tipo Guinness!”.
Marchio atipico ed “esotico” per il panorama italiano dominato esclusivamente dalle lager industriali ancora fino ai primi anni Duemila, e in larghissima parte ancora oggi, il nome della fabbrica dublinese fondata da Arthur McGuinness nel 1759 ha saputo radicarsi nell’inconscio collettivo dei bevitori anche meno specializzati al punto da travalicare la sua valenza puramente commerciale e divenire sinonimo di “stout” oltre che, per riflesso, di Irlanda e di St. Patrick’s.
Un dovuto chiarimento: il marchio Guinness, nonostante evochi nella mente della maggior parte dei consumatori non esperti la birra “diversa” per eccellenza, non identifica un prodotto artigianale: le stout Guinness sono a tutti gli effetti industriali, infatti, e appartengono oggi alla multinazionale inglese Diageo.
Ciononostante, anche per i fanatici intransigenti delle produzioni “micro” non pastorizzate e non filtrate Guinness è in qualche modo vista con un occhio diverso rispetto ad Heineken e simili; vuoi perché gli Irish pub sono di fatto stati tra i primissimi esercizi a diffondere in Italia una cultura del bere differente, ospitando al banco molti degli attuali esperti all’epoca delle prime bevute, vuoi per i ricordi di viaggi di gioventù verso un’Eire verde e un po’ mitica, vuoi per l’effettiva rilevanza storica e tecnologica che la fabbrica di St. James’ Gate ha giocato nella formazione del panorama birrario odierno.
Ecco quindi i motivi per cui Guinness merita di essere la birra scura più famosa al mondo:
Ha permesso alle stout di arrivare fino a noi
La storia delle birre, come quella di qualsiasi tipologia di alimento, è una storia di evoluzioni e successioni determinate da una parte dai gusti specifici delle singole popolazioni, dall’altra dalle ragioni dei produttori (disponibilità e costo delle materie prime, accesso alle tecnologie, tasse, etc.).
Nel Regno Unito del Settecento, la situazione degli stili e dei mercati birrari era quanto mai frammentata: nelle città, ove la produzione storica si concentrava nel campo delle “Brown ales” scarsamente luppolate e brassate con malti dalla forte acidità, i birrai soffrivano la forte concorrenza delle modaiole “Burton ales” dello Staffordshire e del Derbyshire; prodotte con malti più chiari e leggeri di nuova concezione – malti pale – e una quantità superiore di luppoli, nonché con un’acqua ricca di sali, tipica del territorio, che potenziava la percezione dell’amaro.
Per reagire alla minaccia commerciale, i birrifici cittadini della Gran Bretagna svilupparono le porter, birre più scure e forti in grado alcolico delle antagoniste pale ma parimenti luppolate che promettevano agli hipster del tempo sensazioni nuove e magiche.
Punto a sfavore dei birrai di Burton era che i malti chiari da loro impiegati costassero molto di più dei cereali bruciati impiegati dai produttori di porter: queste ultime vissero quindi, grazie alla robustezza del prodotto e ai prezzi più bassi, un vivace successo commerciale; giungendo in Irlanda proprio grazie alla fabbrica di Artur McGuinness alla sua apertura datata 1759.
Fu qui che il grado alcolico elevato delle porter, unito ai prezzi abbordabili, venne accolto con favore dalla popolazione; generando una diffusione pressoché plebiscitaria.
Ma cosa c’entrano le stout? A metà del Settecento, i termini “stout” e “porter”, a differenza di quanto accade oggi, venivano utilizzati in maniera intercambiabile quando non addirittura contemporaneamente: stout era sostanzialmente impiegato come aggettivo di “porter”, ad indicare la robustezza dello stile (“stout” significa letteralmente “forte”).
È a Dublino che le due parole passano a decretare progressivamente due stili birrari diversi: così, mentre le porter finiscono per essere definitivamente fagocitate dalla pale ales fino a sparire dall’atlante degli stili (l’ultima prima della “craft revolution”, che riporterà lo stile in auge, sarà di brassata proprio a St. James’ Gate nel 1973), le stout, sulle quali la Guinness si sarà concentrata fino a cambiarne progressivamente il volto (alleggerendole, rendendole più secche, impiegando espedienti tecnologici che consentiranno di mantenerne l’apparenza adattandone il gusto ai palati in evoluzione degli irlandesi ed il costo alle mutevoli condizioni di tassazione, e ai prezzi delle materie prime), sopravvivranno fino ai giorni nostri.
Ha introdotto importanti innovazioni tecnologiche
Guinness è sempre stata all’avanguardia in termini di tecnologia: molte delle innovazioni adottate nel corso della storia, introdotte nel processo produttivo per migliorare il prodotto finito o semplicemente come soluzioni innovative per la riduzione dei costi di brassaggio, si sono dimostrate del tutto pionieristiche.
Prima fra tutte è l’utilizzo del Black Patent Malt, inventato da Daniel Wheeler nel 1817 come brevetto collaterale della macchina tostatrice a tamburo: il malto, scurissimo, era in grado di fornire a grandi lotti di birra una colorazione bruno scuro-nera senza sviluppare tonalità aromatiche che tendessero eccessivamente al bruciato.
Analogamente, l’azienda adottò nelle prime fasi della loro diffusione birraria il roasted barley (orzo torrefatto non maltato, dopo la Seconda Guerra Mondiale), i fiocchi d’orzo (introdotti negli anni ’50 per maggiore secchezza) e tutta una serie di accorgimenti che cambiarono il profilo sensoriale tipico delle Irish Dry Stout fino al modo in cui lo concepiamo oggi, tra le quali non possiamo non citare l’impiego per il condizionamento e il servizio della birra di carboazoto.
Il gas, responsabile della texture cremosa tipica della stout irlandese, venne testato dall’azienda durante gli anni Trenta e Quaranta nella persona dello scienziato Michael Ash, ed introdotto definitivamente in produzione nel 1954.
Per una questione di stili
Nell’Ottocento, Guinness produceva solo una porter, una “single stout”, e due varianti più potenti, piene ed amare: le “double” e “triple” stouts.
A leggersi così potrà non significare molto, ma sappiate che queste due versioni sono diventate, con altro nome (coniato comunque da Guinness), due dei sottostili della famiglia delle stout più amati dai bevitori di tutto il mondo: stiamo parlando della Extra Stout (“double”) e della Foreign Extra Stout (“triple”).
Ha un marketing imbattibile
Nel 1794 Guinness pubblica la sua prima pubblicità in assoluto, sul The Gentleman’s Magazine.
Nel 1862, adotterà come logo la celebre arpa. Ma il motivo per cui Guinness ha sviluppato un’immagine che spopola nell’immaginario comune di bevitori e non, del tutto unica ed inimitabile, risiede nella celebre campagna pubblicitaria del 1929: sì, quella in cui venne usato uno dei claim più potenti e semplici mai realizzati, che veicolato da innumerevoli materiali abbiamo imparato come un mantra e siamo in grado di ripetere a 91 anni di distanza.
“Guinness is good for you“.
Sono seguite, da allora, una serie di altre campagne solo poco meno celebri (Guinness – For Strength, “My Goodness – My Guinness!“, Lovely Day for a Guinness), sempre veicolate da un lavoro di art direction e creatività capace di evocare, attraverso i decenni, un mondo incantato e personalissimo; che si è popolato di continuo di personaggi indimenticabili mai in contrasto tra loro, ma in accesa e perfetta continuità.
Tucani, foche, poliziotti benevoli sono gli abitanti di una Guinness-land mitologica e riconoscibile che racconta il prodotto rivestendolo di attributi inequivocabili.