Ieri ho passato un’interminabile notte con il mio bartender —si potrà dire semplicemente “barista” o fa cheap?— preferito: Gian Nicola Libardi.
Gian Nicola conduce un posto magico: il Tatikakeya a Caldonazzo in Trentino, dentro un campeggio in riva al lago.
È un posto magico perché Gian Luca è bravissimo ma anche perché finalmente puoi bere cose buone non a notte fonda, ma in costume, con i bambini che giocano, spendendo il giusto e senza un pensiero al mondo.
[Vermouth Cocchi e cioccolato Gobino: orgoglio torinese]
Ieri sera era a Torino per il suo tour “Notti di…stillate” e mi ha fatto bere talmente tanti cocktail in talmente tanti locali (in realtà erano solo tre ma giuro che sembravano di più: lo Swing, il bar di Piano 35 e il Mad Dog) che ricordo poco di quel che è successo.
Ma una cosa m’è rimasta impressa: che finalmente si cominciano a usare, nei cocktail, distillati, liquori e profumi italiani.
Al di là dell’intramontabile, italicissimo, vermouth, negli ultimi decenni ci sono state tutte le mode, il gin, la vodka, il rum, la tequila e chi più ne ha. Non ho niente contro queste squisitezze: anzi, le adoro.
[La febbre del vermouth artigianale]
Ma saluto con italico orgoglio di d’annunziana memoria una certa revanche tricolore: grappe, acquaviti, liquori —se non li abbiamo noi i liquori, perbacco!— stanno tornando alla grande.
L’altroieri ho avuto la fortuna di pranzare a Milano con il conte Branca, proprio quel Branca lì, e lui mi raccontava della grande fortuna che l’azienda ha in Argentina.
Io capisco che si desideri sempre ciò che non si ha, ma tra i profumi degli agrumi calabresi o pugliesi e i frutti degli alambicchi trentini o veneti (giusto per fare degli esempi) non ci manca davvero niente.
[Vodka: 3 cocktail per il weekend]
La cucina ha riscoperto il famigerato “territorio” (fino ad esagerare), il vino ne ha fatto il nerbo della propria identità.
È il momento —e sta succedendo— che avvenga anche nella mixology. Anzi: nel bere miscelato. Alla salute!