Sarà colpa dell’afa, dai. Voglio dare la colpa al caldo torrido di queste settimane. Non vorrei ridurmi a pensare che due dei personaggi più in evidenza del mondo del vino italiano, Natale Farinetti, detto Oscar, e Josko Gravner, si siano lasciati andare a esternazioni taglienti così, senza freni. Guardando al passato, è vero che i due ci hanno abituati a parole molto schiette. Il problema sta nell’essersi adattati anch’essi al costume attuale che gradisce, alla richiesta di un’opinione, che l’intervistato risponda tramite obici di grosso calibro rispetto alla coltivazione di una rispettosa moderazione.
Ripercorrendo i fatti, Farinetti è intervenuto all’inaugurazione della diciottesima edizione di “Mare e Vitovska” al Castello di Duino Aurisina (TS) lo scorso 28 giugno regalando al pubblico monili rari. Prima ha sbeffeggiato i produttori di vino naturale ritenendoli dei fighetti che si rivolgono al produttore convenzionale dicendo “voi usate merda, io sono più figo di te perché sono naturale“. Poi ha alzato il volume sostenendo che il termine ‘naturale’ è fascista e nel mondo del vino c’è bisogno di libertà (tu pensa, e io che credevo che proprio per via un eccesso di libertà si fosse diffuso il termine ‘vino naturale’, non normato da nessuna parte). Infine ha fatto carte, primiera e sette bello canzonando il mantra di Luigi Veronelli “piccolo è bello“, apostrofando i produttori sostenitori di tale massima come “fighetti che non capiscono niente del vino“. E l’ha detto nel Carso, circa 320 ettari vitati, ad un convegno dove erano presenti piccoli produttori. Ma va capito, è un concetto che non gli appartiene: le sue aziende vinicole, Borgogno e Fontanafredda, contano insieme 116 ettari vitati, senza contare i conferitori esterni.
Alla fine Farinetti è sempre stato così, sono note le sue uscite roboanti o anche solo le sue provocazioni (ve lo ricordate il Barolo che, secondo lui, è un vino facile, dolce, abbinabile con il pesce e da bere freddo?). Tutta acqua al suo mulino, “purché se ne parli” recita l’adagio, eppure pare che anche i suoi toni verbali si siano alzati di un’ottava.
Tu quoque, Josko Gravner
Successivamente, è uscita sull’ultimo numero del Gambero Rosso l’intervista a Josko Gravner. Per chi non lo conoscesse, Gravner è uno dei viticoltori italiani più celebri e celebrati, con radici nel Collio Goriziano e pioniere dei moderni orange wines e dell’uso dell’anfora nella vinificazione, perlomeno qui in Italia. Nell’intervista Gravner ha avuto modo di rilasciare pareri su vari argomenti: sui vini in generale, scagliandosi a più riprese con i vini “tutti uguali” che sono sul mercato, sulla pesantezza dei vini data non dall’alcol ma dalla filtrazione e dai lieviti aggiunti, sul fatto che sono questi vini ‘perfetti’ e ‘costruiti in cantina’ ad allontanare i giovani dal consumare vino. Pareri coerenti con quanto da lui già espresso in passato in altre interviste. Solo che a un certo punto arriva il fuoco d’artificio: a domanda “che ne pensa dei vini senza alcol?” la risposta del buon Josko è “una grande stronzata“, cui aggiunge la precisazione che per lui non possono essere chiamati vini.
Ecco, è qui dove io non arrivo a capire come mai un riferimento dell’enologia nazionale debba definire in un modo così inutilmente irrispettoso un settore del suo stesso mondo. Perché sì, i vini dealcolati sono vini, non sono succo d’uva: è succo d’uva fermentato, a cui è successivamente stato tolto solo l’alcol. È vino senza alcol, punto. Chiamarlo in un altro modo lo allontanerebbe dal settore cui appartiene di diritto. Oltretutto, non ci sarebbe nemmeno competizione diretta, dato che quelle pochissime bottiglie di vino dealcolato che si possono trovare a malapena raggiungono i 20 €, mentre i vini di Gravner vanno dai 100 € ai 150 €. E allora, mi domando, perché continuare a prendere di petto l’ultimo arrivato, spalleggiando il Ministro Lollobrigida? Cosa toglie ai produttori vinicoli, storici e non, l’ascesa di questa nuova branca?
C’è spazio per un’ultima stoccata anche ai vitigni Piwi, ovvero vitigni naturalmente resistenti ad alcune malattie fungine. “Anche quello è un intervento che la natura ci farà pagare. Con il tempo arrivano nuove malattie, adesso risparmi un trattamento, ma andando avanti dovrai fare altri trattamenti per altre malattie“. Un pessimismo che trovo ingiustificato, poiché sbeffeggia anni di ricerca con la piccola argomentazione “eh, ma tanto vedrai che poi s’ammaleranno lo stesso”. Ovviamente l’alternativa della famigerata ‘chimica’ in vigna per prevenire tali malattie fungine è un’alternativa mandata dal diavolo. Dunque, per il futuro tenetevi le piante che avete e incrociate le dita.