Nella notte tra 12 e 13 febbraio dei vandali hanno danneggiato gravemente le piante di vite della sperimentazione in campo TEA. Il vigneto era stato inaugurato lo scorso 30 settembre nel Campus universitario a San Floriano in Valpolicella, in provincia di Verona: il primo caso in Europa in cui viti TEA siano state messe a dimora in campo, dopo tutta la trafila di studi di laboratorio (più avanti vedremo cosa sia questa TEA). Neanche cinque mesi dopo, qualche cretino ha pensato bene di andare a sradicare alcune di quelle piante.
È tangibile la disperante amarezza da parte di chi ha speso tempo e denari pubblici per studiare come risolvere problemi agronomici in modo moderno. E invece no, in Italia chi fa scienza non merita rispetto, specie se osa sperimentare in campo agricolo. Magari ricorderete il danneggiamento della risaia sperimentale di Mezzana Bigli (PV) a giugno 2024. Anche lì si trattava di una varietà di riso TEA, modificata tramite tecnica CRISPR/Cas9 per sviluppare resistenza al brusone, un fungo micidiale per il riso. Così come le viti di chardonnay danneggiate sono state modificate affinché resistessero alla peronospora, un altro fungo che nel 2023 ha falcidiato il vigneto italiano e ha messo in ginocchio tanti vignaioli.
Perché TEA non è OGM: la differenza
![campo riso tea distrutto](https://images.dissapore.com/wp-content/uploads/2024/06/campo-riso-tea-distrutto.jpg?width=660&height=0&quality=75)
Andando un po’ sul tecnico, l’acronimo TEA sta per “Tecniche di Evoluzione Assistita”. Significa che, individuato un problema della pianta, si agisce sul suo DNA modificandolo in modo che sia la pianta stessa a risolverlo. So che parecchi di voi penseranno “ma così è un OGM”. A parte che, anche fosse, non dovrebbe ormai essere un problema (dopo ci ritorniamo), ma la differenza sostanziale con un Organismo Geneticamente Modificato è che la tecnica TEA aggiorna il DNA di un organismo trasferendo un gene originario di una specie sessualmente compatibile, mentre in un OGM vengono trasferite sequenze genomiche proprie di altre specie (tipo il mais BT, dove sono stati introdotti geni del batterio Bacillus thuringiensis che codificano per una tossina velenosa per alcuni insetti, tra le quali la piralide).
Un esempio pratico di TEA: il gene della resistenza alla peronospora, preso da una vite selvatica, con questa tecnica può essere introdotto tramite TEA nel DNA di una delle varietà di vitis vinifera che tanto ci dilettano il palato (sulle viti di chardonnay all’università di Verona è stato fatto anche meno, in quanto con questa tecnica il gene che le rende suscettibili alla peronospora è stato, per così dire, spento). La stessa cosa si può ottenere o lasciando fare alla natura, se avete fortuna e qualche millennio a disposizione, oppure incrociando queste due specie come dei matti. Quest’ultima tecnica è quella utilizzata per i vitigni PIWI, ma va da sé che la pianta risultante, qualora desse uve buone per farci vino di qualità, non potrà essere uguale alla varietà originaria. In sintesi: se volete una pianta di nebbiolo e la volete naturalmente resistente alla peronospora, è alle TEA che dovete rivolgervi.
E allora vedete bene che le due azioni di distruzione delle sperimentazioni in campo di RIS8ttimo e del vigneto sperimentale di chardonnay sono collegate. Vedete bene che non si tratta più di vandalismo, ma di un progetto ben concepito: guai a far entrare in laboratorio delle piante, guai a modificarne il DNA; anche se la cosa potrebbe salvare dei raccolti senza spargimento di anticrittogamici, rame, zolfo e altri prodotti; anche se ciò potrebbe salvare il reddito di una famiglia di contadini.
Io realmente ho da sempre difficoltà a capire l’ostilità manifestata verso la scienza applicata all’agricoltura. Parliamoci chiaro: non c’è una singola motivazione logica che giustifichi l’avversione alle alle TEA e agli OGM. Ma sarà più intelligente modificare il DNA di una vite per farle esclusivamente sviluppare la resistenza alla peronospora, lasciando inalterate tutte le sue altre caratteristiche, che procedere per incroci casuali solo perché il metodo è “naturale” (l’intervento umano non è affatto un artificio, giammai)?
E invece si continua a demonizzare la scienza agronomica, a fare demagogia antiscientifica, a vagheggiare una fantomatica difesa della natura e della biodiversità mentre in realtà la si danneggia: se ho una varietà resistente, non userò i cattivissimi prodotti chimici, non trovate? Tra l’altro, queste discussioni lasciano sempre ai margini chi dal lavoro nei campi deve trarre un profitto per campare (e nel campare è compreso il non ammalarsi per aver respirato prodotti chimici, usati per tutelare il raccolto dalle avversità e produrre reddito).
Voglio fare un gioco: immaginare uno scenario passato in cui piazzare questi antiscientisti, e riflettere sull’eventuale risultato. Immaginiamoli un secolo e mezzo fa, quando i vignaioli erano alle prese col flagello della fillossera. Immaginiamo questi criminali che andavano a danneggiare i primi esperimenti di viti europee innestate su piede americano, al grido di “la pianta deve sviluppare naturalmente la resistenza alla fillossera”. Sarebbe semplicemente stata la morte del vino. O meglio, lo si sarebbe fatto con le viti resistenti, quelle americane, da cui si ottengono vini rustici al limite della potabilità; oppure con le poche viti europee piantate nei rarissimi terreni odiati dalla fillossera, tipo quelli sabbiosi, quelli vulcanici o quelli in altura. Il vino sarebbe semplicemente diventato un bene di lusso, niente più tradizione, niente più cultura enogastronomica italiana.
Mi si obietterà “eh, ma un innesto è una cosa naturale, non si fa in laboratorio”. No, naturale vuol dire che l’uomo non alza neanche un sopracciglio, pensa a tutto madre natura. Vedo parecchio arduo un movimento spontaneo che innesti il tronco di una vitis vinifera sul piede di una vitis labrusca; magari se Madre Natura chiedesse ai castori, forse.
Potrei continuare per giorni e giorni, il fatto fondamentale resta uno soltanto: alla natura non frega assolutamente niente che noi produciamo vino o meno. La natura evolve per fati suoi e preserverà sempre la biodiversità per fatti suoi. Vecchie specie spariranno e nuove ne nasceranno, indipendentemente dall’intervento dell’uomo. La speranza è che prima o poi si inverta questo deprimente trend chemofobico e antiscientifico; che gli studi di persone preparate, che puntano a progredire senza escludere l’impatto ambientale delle loro scoperte, possano essere sì dibattuti ma comunque rispettati; che la si smetta di contrastare ogni scoperta scientifica con il tradimento della naturalità, dell’artigianalità e il buon tempo andato, quando per riuscire a campare i contadini le abbandonavano le campagne; e che la si finisca di pensare che ogni singolo studio scientifico abbia alle spalle una multinazionale pronta a lucrarci sopra (perché altrimenti vorrei sapere da quale piccolo artigiano avete comprato la vostra automobile. Constantia necesse est).