Qualche tempo fa su Eater (in realtà su Punch), rivista americana di gastronomia che tutti gli appassionati di cibo leggono avidamente è comparso un articolo dal titolo: “Americas’ Best Specialty Wine Shops”. L’articolo, firmato Megan Krigbaum, si apre con una riflessione sul cambio di paradigma delle enoteche negli Stati Uniti. Non più “quattro pareti rivestite di bottiglie con etichette che stridono tra loro, un tavolo di vini da 15 dollari o meno, forse uno scaffale con qualche libro” ma concetti rinnovati che hanno trasformato l’enoteca di oggi in “un luogo dove fare formazione e divulgazione”.
Questo è successo perché “ci sono i negozi che hanno investito profondamente in un luogo, in uno stile di vino o in una missione, come quella di dare risalto a persone sottorappresentate che sono anche produttori di vino. In breve, l’enoteca non è mai stata così varia o specializzata”. Segue lista di 10 indirizzi che avremmo voglia di visitare seduta stante ai quattro punti cardinali del paese che, dice Eater, stanno cambiando il modo di acquistare il vino.
Al di là del discorso interessantissimo sul concetto di enoteca in versione oltreoceanica, l’articolo spinge a una riflessione sull’utilizzo del termine specialty e sulla nostra ricezione in Italia. Saltando direttamente alle conclusioni, sembra emergere che questo aggettivo sia passato da rappresentare una nicchia (nella fattispecie, quella del caffè) a descrivere ogni ambito del mercato gastronomico. Dal tè al vino, al pane alla birra. Tutto questo a scapito di un possibile svuotamento di senso, il senso originale e rigoroso di individuare una categoria di prodotto definita.
Ma come siamo arrivati a questo punto? Partiamo dalla grammatica. Il termine specialty letteralmente può essere utilizzato sia come sostantivo che come aggettivo. Nel primo caso, indica la “specialità”, intesa sia come pezzo forte di una lista, che come piatto tipico che come specializzazione. L’aggettivo di rimando significa “speciale” nel senso di particolare ma anche specializzato e unico. Il termine specialty è quindi associato molto spesso al contesto gastronomico perché si ritrova nell’espressione “specialty food” per indicare delle specialità gastronomiche, “specialty dish” per indicare ad esempio il piatto speciale dello chef o della casa, il suo signature dish, il cavallo di battaglia, infine “specialty shop” sia per la bottega che per il negozio specializzato. A questo punto il titolo di Eater troverebbe un senso, perché farebbe riferimento ai negozi specializzati in vino. Ma non è proprio così e lo stesso testo lo fa intuire.
Tutto comincia con i caffè specialty che corrispondono a un criterio oggettivo piuttosto scientifico, discutibile o meno, che serve a porre l’accento sulle caratteristiche qualitative del prodotto caffè, caratteristiche che possono essere misurate da palati esperti in base a un preciso protocollo. Dunque un caffè specialty non dovrebbe essere semplicemente un caffè buono, o un caffè di qualità, ma un prodotto specifico che sta all’interno di un certo canone.
Ci siamo già imbattuti in una seconda interpretazione di questo tema quando abbiamo raccontato che sul tè c’è un dibattito internazionale che ha coinvolto diversi paesi importatori sull’utilizzo del termine specialty anche in riferimento a questa bevanda. La Specialty Tea Association, non senza problemi, ha provato a stilare dei parametri univoci per la definizione dei tè specialty che punti ad abbracciare i tè di alta qualità, lavorati con metodi artigianali che rischiano di essere inghiottiti dal mercato di massa. Il fine ultimo è quello di mettere al riparo il consumatore da un uso improprio del termine da parte dei brand.
Il termine specialty è associato anche al vino e ai wine shop. Online è possibile trovare definizioni poco delimitate che parlano di vini specialty come di vini che rappresentano specifiche nicchie di mercato, senza per forza fare riferimento alla qualità. “Il termine vino speciale viene solitamente utilizzato per descrivere un tipo di vino come il porto, lo sherry, l’ice wine o il sakè, ma può anche riferirsi a un vino in edizione limitata o a un vino premium di un’annata specifica. Dai vini da dessert con una nota di mirtillo al vino che si abbina al vostro segno zodiacale, ogni bottiglia offre qualcosa di nuovo ed emozionante e garantisce che i vini non diventino mai noiosi” spiega questo sito. Non a caso categorie di specialty wine sono in vendita presso molti retailer, tra cui Aldi per dirne uno. Tutto chiaro? Non sembra. Delirante? Abbastanza.
Con specialty bread siamo ancora nella stessa vaghezza. Il termine non è consolidato. Sul blog di una panificatrice leggo che “I pani speciali sono qualsiasi tipo di pane un po’ diverso dal solito. Può trattarsi di una pagnotta di brioche allo yogurt, di una ricetta di muffin senza impasto e di tutto il resto”. Sul sito di Deli France nella categoria “specialty bread” ci sono le focacce, i panini al formaggio, i panini ai semi, le ciabattine, persino la pizza margherita. Nel Regno Unito c’è poi un marchio, Specilaty Breads Uk, che prepara pane di qualità con farine certificate. È un pane “speciale”? potrebbe esserlo: c’è quello con i semi, i bun, i flatbread, i pani con la frutta, i plumcake.
Arriviamo alla fine del giro con più confusione di quella con cui siamo partiti. Tocca adesso alle birre speciali, vetustamente definite per legge tali quando il grado Plato non è inferiore a 12,5 (laddove la “doppio malto” prevede un grado Plato uguale o superiore a 14,5). Dunque il termine, in riferimento alla birra, non ha niente a che fare con l’artigianalità (definita tale, sempre per legge, sulla base dell’indipendenza del produttore, sui volumi di produzione del birrificio stesso e sulla non microfiltrazione e pastorizzazione della birra).
Ma nella pratica dello scaffale, e lo spiega bene Cronache di Birra, le birre speciali in Italia sono: “quel segmento che comprende le birre che si distinguono dalle normali lager, rispetto alle quali le birre speciali sono differenti per gusto, alcolicità e provenienza. Questo segmento comprende quindi le birre ad alta fermentazione, belghe, rifermentate, pils, stout, bock (etc.) nei formati 50cl e 75cl, le birre di importazione non lager, le regionali, le artigianali, le “beer mix” (ad esempio le radler), le light (basso contenuto alcolico) e le analcoliche” e poi a commento “La definizione fa a tratti accapponare la pelle, ma si capisce che siamo al cospetto di una famiglia residuale, nella quale rientrano in pratica tutti i prodotti non identificabili con i classici marchi mainstream”. Insomma, noi italiani non facciamo riferimento alla qualità.
Gli altri invece? Su un blog di settore belga c’è scritto che specialty beer “È un termine nato negli anni ’80 e birra aromatizzata è la definizione più accettata. In realtà, non esiste una definizione. Il termine è nato principalmente per distinguere questo tipo di birra dalla lager”. Insomma, in modo simile a come succede per l’Italia. Potrei andare avanti, parlando anche dei formaggi, e del fatto che gli specialty food rappresentano secondo alcuni “un cibo unico e di alto valore, prodotto in piccole quantità con ingredienti di alta qualità“. Ma la confusione è già abbastanza. In buona sostanza: mai fidarsi del termine specialty o “speciale” usato in riferimento al cibo a meno che non si tratti di caffè. Per il resto a quanto pare, vale tutto.