Cosa significa vino PIWI e perché la viticoltura italiana dovrebbe crederci di più

Resistenti e non modificati geneticamente, quindi eticamente (e legalmente!) accettabili, i vitigni PIWI potrebbero rendere più sostenibile la nostra produzione di vino.

Cosa significa vino PIWI e perché la viticoltura italiana dovrebbe crederci di più

Uno pensa di sapere tutto del vino, della vite, delle varietà di cultivar. E invece ti giri un attimo ed ecco che prende piede una novità in un mondo apparentemente immutabile. Stiamo parlando dei vitigni PIWI, acronimo del termine tedesco “pilzwiderstandfähig“, che nell’abrasiva lingua di Goethe significa “resistente ai funghi“. Novità per modo di dire, poiché la denominazione PIWI esiste da più di venti anni, ma gli ettari vitati e, di conseguenza, i vini da essi ricavati in Italia sono ancora ad uno stadio neonatale.

Come abbiamo creato i vitigni PIWI

varietà Solaris PiWI

Detta in maniera estremamente semplicistica, i vitigni PIWI sono stati ottenuti da incroci multipli e successivi tra varietà di vitis vinifera (la comune vite da vino, da cui derivano tutte le varietà che conosciamo, come sangiovese, merlot, cesanese, chardonnay, riesling, etc.) e viti selvatiche americane o asiatiche (vitis labrusca, vitis riparia, vitis rupestris, vitis berlandieri, etc.).

I primi incroci tra queste differenti specie di vite pare risalgano ai primi anni del XX secolo, e c’è da capirlo: a fine XIX secolo prima l’oidio e poi la peronospora, entrambe malattie di origine fungina d’importazione americana, presero a sonori schiaffoni il vigneto europeo. Poi arrivò anche la fillossera, un insetto sempre d’oltreoceano, a completare l’opera di smantellamento. La soluzione ai primi due mali fu individuata nell’uso di zolfo contro l’oidio e di poltiglia bordolese (nome poco attraente ad indicare una mistura di solfato di rame e calce disciolta in acqua) contro la peronospora, mentre per l’infame insetto ghiotto di radici della vitis vinifera l’unica soluzione individuata, e che è ancora valida tutt’oggi, fu innestare il corpo delle viti europee su ‘piede’ radicato di una vite americana, la quale essendo compatriota del fitofago risultava immune al suo attacco. Arginato il disastro, il pensiero successivo fu tentare di incrociare viti europee con quelle americane, in modo da ottenere varietà ibride resistenti e che dessero un’uva vinificabile. Si ottennero così alcune varietà note ancora oggi come l’isabella o la clinton, caratterizzate da una buona resistenza alle malattie. Ecco, purtroppo il vino che se ne otteneva non era proprio un campione di grazia e finezza, per cui il progetto perse di slancio.

I PIWI, resistenti e no OGM

vino bianco piwi petrinoIl bianco dell’azienda Paolucci ottenuto dalla varietà Piwi Soreli

Oggi invece il risultato sembra essere stato raggiunto dai vitigni PIWI, altresì detti “varietà resistenti“. Essi, come detto, hanno origine da incroci multipli: i primi ibridi tra vitis vinifera e viti selvatiche sono stati successivamente incrociati più e più volte con altre varietà di vite, fino ad ottenere un esemplare che fosse quasi totalmente vitis vinifera dal punto di vista genetico, ma con le caratteristiche di resistenza alle crittogame. L’enorme vantaggio dei vitigni PIWI si traduce nella non necessità di trattare la vigna con antiparassitari e fungicidi, con un indubbio guadagno in termini di salute umana e ambientale.

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Ora, lo scienziato che è in me pensa che si sarebbe perso meno tempo individuando in laboratorio i geni delle viti selvatiche caratteristici della resistenza alle malattie, introducendoli nel DNA della vitis vinifera, sperimentando poi in campo l’efficacia di queste nuove viti e, se tutto fosse andato bene, procedere con la diffusione. Tuttavia questo processo etichetterebbe le piante come OGM, con impossibilità di coltivazione in Italia e ancora grossi problemi di accettazione da parte del pubblico. Invece fare degli incroci tra piante, sperando che il caso regali un esemplare che abbia le caratteristiche desiderate, quello va bene.

I PIWI in Italia

PIWI bianco, Jasci Vini BiologiciIl “Piwi Bianco” di Jasci Vini Biologici, Vasto

In Italia gli ettari vitati a varietà PIWI sono stimati in circa 2000, localizzati per lo più nelle regioni del nord-est (Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia). Le varietà più in auge sono solaris, souvigner gris, bronner e johanniter per quanto riguarda le uve a bacca bianca, mentre per le uve a bacca nera comandano la classifica cabernet cortis, merlot khorus e prior. Ho la certezza adamantina che solo una quota esigua di voi abbia anche solo sentito nominare una di queste varietà, figuriamoci berne un sorso.

Probabilmente il vitigno PIWI più celebre è il solaris, ottenuto nel 1975 in Germania da incroci tra incroci di incroci di viti incrociate tra di loro, e tra queste troviamo sicuramente il pinot grigio, il muscat ottonel e il riesling. Nel 2001 è stato riconosciuto dall’UE come esemplare di vitis vinifera, ancorché con quarti di ‘selvaticità’ nel suo patrimonio genetico, e da allora è legale ottenere e vendere vino da esso ricavato. La vite solaris resiste bene ai climi freddi ed ha buona vigoria e il vino che se ne ottiene è caratterizzato da sensibile acidità e più che discreta aromaticità, caratteristiche apprezzabili nel metodo ancestrale “Zero infinito” di Pojer e Sandri, o nel “Vino del passo” della cantina altoatesina Lieselehof.