Poche cose, giuro, mi tolgono il sonno come l’illogicità di alcune cose. I tipi che in autostrada occupano la corsia di sorpasso e poi rallentano. I camerieri che mi chiedono se l’acqua la voglio “leggermente” (“leggermente” cosa, buon dio?). Tra le cose attualmente prive di una benché minima logica c’è il non poter conoscere l’uva o le uve con le quali vengono prodotti alcuni vini. Non un fatto secondario, dato che ogni singolo vitigno esprime note organolettiche uniche e peculiari. Eppure è proprio la legge italiana a prevedere tale censura.
La questione è magistralmente spiegata da Michele Antonio Fino nel suo ultimo libro “Non me la bevo“, volume che reputo fondamentale per chi oggi volesse approcciarsi al vino e non apprezzasse la comunicazione veicolata sui social a colpi di reel demenziali, “location/esperienze esclusive” e informazioni che ancheggiano tra il grossolano e l’errato. Non una lettura-passatempo, bisogna essere provvisti di attenzione; ma d’altronde Fino è Professore Associato di Diritto Romano e Diritti dell’Antichità all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo: avesse voluto scrivere un libro-passatempo avrebbe parlato di Seattle ai tempi del grunge (e comunque non ne sarei troppo sicuro).
Vitigni indicibili: la legge e il suo paradosso
Torniamo all’argomento principale: Fino spiega che l’opera censoria trae origine dalla legge 930/1963, detta legge Desana, con la quale vennero istituite ufficialmente le Denominazioni di Origine Controllata. Queste si legavano ai territori di provenienza riportando in etichetta il nome di singoli paesi o di zone più estese, ma ammettevano anche l’aggiunta del vitigno (ad esempio: Vernaccia di San Gimignano, una delle prime DOC istituite). Tutto ciò era l’opposto del costume francese, dove è il solo nome del luogo, a volte del singolo nobile vigneto, ad essere nominato, evitando la menzione dei vitigni nelle AOC (Appellation d’Origine Contrôlée), salvo casi più unici che rari, tipo i vini alsaziani.
La motivazione della nostra affezione verso il vitigno, tanto da renderlo protagonista di molte DOC, risiede nella monumentale quantità di vitigni autoctoni che possiamo vantare (le stime più recenti calcolano siano attorno a 500) e di aver voluto legare ogni tipologia di uva alla zona ritenuta d’elezione in termini di tipicità. Purtroppo ciò si è risolto nel corto circuito per cui, se si vuole nominare l’uva in etichetta (o in una qualsiasi altra comunicazione aziendale), il rispettivo vigneto deve essere iscritto all’albo della DOCG, DOC o IGT di riferimento territoriale, il quale deve prevederne la coltivazione e la trasformazione in vino (che non è che si può coltivare tutto da tutte le parti).
Esempio: ho un vigneto di gewurztraminer e da esso produco bottiglie di vino che voglio vendere legalmente. Se non ho iscritto a un albo il mio vigneto, e ammesso che quell’albo ammetta la mia uva, potrò uscire sul mercato solo con la dicitura ‘vino bianco’ in etichetta, poco appetibile sul mercato. Se dico comunque in giro che il mio vino è tratto da uve gewurztraminer (sito della cantina, brochures, ecc.), mi multano male. Se poi qualcuno compra il mio ‘vino bianco’ aspettandosi un pattern organolettico da bevanda in tetra-pak, come la denominazione lascerebbe pensare, si ritroverà con un roseto nel bicchiere e la cosa potrà anche dargli fastidio.
Va bene, basta iscrivere il vigneto all’albo appropriato” direte voi, vero? E invece il legislatore, che è un bricconcello, nel 2012 ha orchestrato un altro trabochetto mefistofelico: undici vitigni possono essere nominati solo se utilizzati per le denominazioni a essi collegate. Si tratta di Albana, Bianchello, Cannonau, Erbaluce, Girò, Nasco, Nuragus, Ormeasco, Ruché, Sagrantino e Semidano.
Per spiegare meglio l’assurdità di questo decreto cito testualmente l’esempio fatto da Fino nel suo libro: se produci uva Erbaluce e sei nella zona dell’Erbaluce di Caluso DOCG, puoi produrre questo vino e dichiarare il vitigno in etichetta. Supponiamo però che la tua azienda si trovi a Settimo Vittone, a undici chilometri da Ivrea […], e tu voglia fare del vino Canavese DOC Bianco. Il disciplinare ti impone di usare il 100% di uva Erbaluce, ma siccome la tua DOC è diversa dalla DOCG di Caluso, non potrai in alcun modo comunicare legalmente al consumatore che il tuo vino è fatto al 100% di Erbaluce. La legge che ti impone di usare quel vitigno è la stessa che ti impone di non dire che lo usi“.
Il non Sagrantino, per esempio
Per mia esperienza, ho incontrato quest’assurdità burocratica con il vino Campo di Raína, un Umbria IGT Rosso della Cantina Raína. La retroetichetta parla di “uve di Storico Autoctono di Montefalco”, una sintassi frastagliata per illuminare anche nella mente più nebulosa il nome Sagrantino senza doverlo pronunciare, tipo Voldemort. La legge, a mo’ di Zequila, impone diunque alla cantina di non nominare il Sagrantino; eppure vi invito a solcare l’internet alla ricerca di questo vino: il 100% dei siti vi parlerà di vino 100% Sagrantino. Certo aiuta il fatto che, fino alla bocciatura dell’annata 2019 da parte della commissione d’assaggio per la DOCG, il Campo di Raína fosse Montefalco Sagrantino DOCG. Ma se la legge è valida, il sillogismo non potrebbe comunque essere sfruttato. Ma vi assicuro che questo non è l’unico esempio di vino prodotto da vitigno innominabile che le enoteche on-line nominano senza timore.
E qui le strade sono due: o i siti si inventano di sana pianta gli uvaggi non dichiarati perché non dichiarabili, oppure le informazioni esatte in un modo o nell’altro arrivano. E meno male, aggiungo io, poiché sapere con quale uva viene fatto un vino mi dà un’idea sul suo possibile gusto, sul suo abbinamento a tavola, o banalmente se mi possa piacere o meno.
Allora appare evidente che un regolamento del genere risulti superato e che vada ridiscusso, poiché certamente non fornisce un servizio al consumatore, né, al contempo, tutela i produttori ‘regolari’ dai ‘corsari dell’IGT’, che possono comunque contare su un’istantanea diffusione delle informazioni.