Perché mai bruciare un chicco sano se non per coprire difetti? Il processo di tostatura può essere usato come cartina al tornasole per valutare la qualità di un caffè.
L’ascesa dello specialty coffee ha ovviamente coinciso con la nascita di micro-torrefazioni, e quindi di micro–roaster, una professione in crescita anche nel nostro Paese. Paolo Scimone è tra quelli che spendono buona parte del loro tempo vicino ad una tostatrice, e con il quale oggi andiamo ad approfondire il tema di quella curva di tostatura sulla quale, a ben vedere, più che sul metodo estrattivo, si disegna buona parte del profilo sensoriale comunemente identificato come “tipico”.
Una carriera precedente nel mondo dell’hospitality e del bar, con qualche caffetteria in gestione e una di proprietà, Scimone si è poi spostato nella torrefazione, dopo aver terminato il percorso da assaggiatore di caffè. Il percorso da micro-roaster l’ha intrapreso fondando His Majesty the Coffee, che l’anno prossimo compie 10 anni. Dal 2014 tiene corsi di tostatura e dal 2015 è consulente per varie torrefazioni, sparse per il mondo.
Com’è cambiato lo scenario del roasting in Italia nell’ultimo decennio? Come siamo percepiti all’estero?
“Il mondo del caffè italiano è cambiato parecchio, stiamo tornando ad una frammentazione dell’offerta locale, con la nascita di tante piccole micro-torrefazioni, come già avvenuto in passato negli anni ’80. Questo comporta un riavvicinamento da parte dell’utente al prodotto, che viene vissuto nuovamente come un alimento da consumare fresco e da comprare nella “bottega” sotto casa. Dall’altra parte abbiamo il mondo delle torrefazioni cosiddette industriali, che si stanno muovendo in direzione opposta: tante acquisizioni di realtà di media dimensione ed accorpamenti tra marchi internazionali.”
Estremizzazioni al contrario: tostature chiare
Ci si può abituare anche al peggio e alcuni risultati in tazza sono li a ricordarcelo, ma è altrettanto vero che nella quotidianità il nostro rapporto con la bevanda è fatto di ritualità radicate, improbabili madeleine e memorie sensoriali dure da scalfire. Lo specialty coffee è stato in grado, seppur nella nicchia di mercato in cui opera, di farci cambiare paradigma rispetto a ciò che il palato italiano considerava “tipico”, penso alle tostature violente e a ciò che di conseguenza si palesa in tazza.
Possiamo osservare, però, casi paradossalmente opposti, come la scelta indiscriminata di tostare il più chiaro possibile con l’intento di differenziare il prodotto, talvolta con risultati in tazza discutibili.
Spiega meglio Scimone: “A volte il cambiamento passa per un periodo di estremizzazione. Per far capire che esiste altro, può avere senso sconvolgere la gente con prodotti posizionati all’estremità opposta. Prendiamo ad esempio il modello inglese: 15 anni fa si iniziarono a trovare dei prodotti veramente estremi e per circa 8-10 anni il trend è stato quello: caffè molto chiari, al limite del sottosviluppato (il termine si riferisce allo sviluppo del chicco in fase di tostatura, ndr) e con un’asprezza tutt’altro che piacevole, tostati allo stesso modo per filtro ed espresso. Oggi invece moltissime torrefazioni, se non tutte, differenziano la tostatura da filtro con quella da espresso ed hanno cambiato il loro stile, dirigendosi sempre di più verso tazze di caffè più bilanciate. Credo sia un’evoluzione naturale che probabilmente vivremo anche qua in Italia tra qualche tempo“.
Professione roaster: una strada in salita
“La professione del roaster è ancora molto acerba, la maggior parte dei torrefattori (specialty e non) va a sensazione personale, insomma un pò ad occhio, non seguendo regole ben precise. La narrazione rispetto alla variabilità degli andamenti stagionali (stiamo pur sempre parlando di un prodotto agricolo) viene usata spesso per giustificare l’incostanza produttiva. Ma ci sono studi scientifici effettuati da enti competenti ed università che oggi ci aiutano tantissimo a capire la fisica e la chimica della tostatura. Insomma, abbiamo molti più strumenti per controllare il processo, ma a quanto pare a pochi piace mettere in pratica la teoria”.
Un po’ come lo scenario del primo decennio di birra artigianale italiana: si rincorrevano vette sensoriali con amari impattanti, o si giustificava l’improbabilità di una ricetta con un laconico “volevamo farla così”. Sembra insomma che ogni cambio di paradigma culturale debba passare sotto il setaccio di estremizzazioni e approssimazioni.