Negli Stati Uniti se ne parla di un po’, noi avevamo già riportato la notizia, ma adesso sembra che il caso Bud Light si stia ingigantendo sempre di più. Negli ultimi giorni Clay Travis, fondatore di OutKick e personalità nota nel settore dei media sportivi, ha anche fatto un esperimento sociale, e di marketing, durante un concerto per capire se effettivamente gli americani non prendono più in considerazione questa birra – anche se regalata. E sì, nei video girati per l’occasione si vedono distintamente le persone preferire altre birre alla Bud Light: tutto perché una delle ultime campagne marketing del marchio aveva coinvolto un’influencer transgender.
Bud Light, la birra americana per eccellenza
Per capire però quale sia davvero il problema dobbiamo fare un passo indietro. Se avete un minimo di conoscenza dei marchi americani saprete che Bud Light, della multinazionale Anheuser-Busch, è una delle birre in lattina più bevute degli Stati Uniti, soprattutto negli stati del Sud e del Mid-West. E ancora, è una delle birre che da sempre partecipa agli spot del Super Bowl e che, in un certo senso, rappresenta l’americano medio.
Proprio qui sorge il problema: i consumatori di Bud Light, che ci piaccia o no, non sono il target raggiunto da un’influencer transgender e democratica – Dylan Mulvaney è stata una delle prime persone transgender ad intervistare il presidente Biden sul tema dei diritti LGBTQ+ – e quindi si sono sentiti fortemente in contrasto con questa campagna pubblicitaria.
Caso Bud Light: tutta una questione di marketing
A questo punto la domanda viene spontanea: l’ufficio marketing di Bud Light non conosce il suo target di riferimento?
Non è, ovviamente, la prima volta che capita che un marchio non conosca il suo pubblico, ma qui stiamo parlando proprio di due poli diametralmente opposti. Tanto che, in risposta alla pubblicità woke di questa birra è stato creato un marchio competitor di nome Ultra Right Beer – birra di estrema destra – con uno spot pubblicitario che, francamente, fa rabbrividire.
In un paese come gli Stati Uniti, poi, dove negli ultimi anni i diritti civili sono stati uno dei temi caldi durante campagne elettorali, cortei e manifestazione (ricordiamo Black Life Matter su tutte), e dove questo – e anche la presidenza Trump – ha creato una profonda spaccatura tra fazioni politiche e di ideali, fare un’azione come quella ideata da Bud Light è stato un suicidio – prevedibile – con un ritorno disastroso: il 18% in meno di vendite degli ultimi mesi.
Il tutto per quale ragione? Cercare di raggiungere un pubblico differente da quello attuale? Schierarsi (strumentalmente?) con il movimento per i diritti civili.
Viene addirittura da pensare che il brand abbia voluto dare una rispolverata alla propria immagine, legata a un target non propriamente progressista, servendosi di una mascotte radicalmente opposta ad essa, capace in potenza di attirare un nuovo pubblico. Ma Bud Light così facendo ha perso quello di sempre.
Le dichiarazioni dell’azienda poi non hanno aiutato, specialmente quelle di Brendan Whitworth, amministratore delegato di AB InBev, che aveva aggirato il problema scherzandoci sopra, sostenendo che l’azienda non aveva mai avuto l’intenzione di scatenare una polemica. In questo modo, anche Democratici e liberali non si sono sentiti rappresentati dal marchio, che in un certo senso ha lanciato il sasso e poi nascosto la mano, non sostenendo come avrebbe dovuto la sua idea politica, e pubblicitaria.
Al momento, comunque, le vendite continuano a calare e due delle figure di spicco del settore marketing dell’azienda AB InBev, Alissa Hienerscheid, vicepresidente del settore marketing e Daniel Blake, presidente del marketing, sono state messe in congedo. Vedremo cosa accadrà: gli Stati Uniti sono un paese enorme che, a volte, dimentica facilmente queste polemiche, ma c’è da dire che se Bud Light dovesse uscire del tutto dalla consuetudine dei suoi consumatori più fedeli, questo sarebbe davvero un punto di non ritorno per l’azienda.