Brut, extra brut o demi-sec? Quale spumante scegliere in base al grado zuccherino

Perché uno spumante Dry ha un gusto dolce? Ma soprattutto, perché si chiama così? Come scegliere le "bollicine" in base al loro grado zuccherino, abbinandole perfettamente in ogni occasione.

Brut, extra brut o demi-sec? Quale spumante scegliere in base al grado zuccherino

Uno pensa che sia semplice andare a comprare uno spumante. Uno pensa che questi si dividano semplicemente in dolci e secchi, stop. Quindi, uno che si ritrova tra le mani uno spumante “Dry” o “Sec”, che in italiano si traduce con “secco”, potrebbe giustamente ignorare che quel vino contenga una più che discreta quantità  di zucchero. E dunque, da ultimo, aprirebbe per l’aperitivo quel dannato spumante dry, suscitando notevoli malumori nei commensali.

Il mondo degli spumanti ha tante di quelle sfumature da dare il mal di testa ben prima di bere. Oltre alle differenze date dalla provenienza geografica, ci sono quelle di metodo produttivo, di annata dei vini base, di periodo di affinamento sui lieviti e, in ultimo, di grado zuccherino. Per non farlo diventare un tomo enciclopedico, oggi ci concentreremo solo sulla classificazione degli spumanti in base alla concentrazione di zuccheri presente.

La classificazione degli spumanti secondo il grado zuccherino

Questa classificazione è dettagliata a livello europeo dal regolamento CE N. 607/2009, Allegato XIV. La classificazione è progressiva e parte dalla tipologia più ‘estrema’, ossia il brut nature (o pas dosé, o dosaggio zero, o un altra decina di nomi), con cui si categorizza un vino spumante che abbia un contenuto zuccherino massimo pari a 3 g/l.

Il brut nature è seguito dall’extra brut, che reca in dote da 0 a 6 g/l di zucchero, e dal brut, la tipologia più nota, che di zucchero ne può contenere fino a 12 g/l. Parentesi: uno spumante che vanti un contenuto nullo di zucchero può dunque essere etichettato come brut nature, extra brut o brut. La scelta è tutta della cantina che magari, sondando il mercato, può valutare un maggior introito etichettando lo spumante come brut.

Riprendiamo la discesa della piramide arrivando all’extra dry (da 12 a 17 g/l), al dry o sec (17-32 g/l) e al medium dry o demi sec (32-50 g/l). E qui l’inghippo estremo di questa classificazione: perché indicare come secco qualcosa che contiene zucchero in maniera anche considerevole (nello specifico del dry, da 2 a 5 cucchiaini circa di zucchero per bottiglia da 0,75 l)? Proseguite nella lettura, che una spiegazione logica c’è.
Chiude la classificazione la tipologia dolce (o sweet, o doux), da 50 g/l a crescere. Semmai fossimo curiosi di conoscere l’esatta quantità di zucchero nel vino, la nuova modalità di etichettatura dovrebbe presto andare a soddisfare la nostra curiosità.

Come abbinare gli spumtanti brut o dry

Si sente dire sempre più spesso che l’abbinamento cibo-vino è sopravvalutato, che non è una scienza, che ognuno deve fare come più gli aggrada. Ecco, no. Non confutando la validità del principio di libertà, se un sorso di buon vino, dopo un boccone di buon cibo, ti rende disgustoso sia il cibo che il vino, è evidente che quello sia un abbinamento pessimo (volete fare una prova storicamente fallace? Carciofi e Cabernet Sauvignon. Poi mi dite). Per cui dobbiamo quantomeno conoscere le qualità di ciò che mangiamo e beviamo, fosse solo per non rovinarci il palato.

Per valutare l’abbinamento di un vino occorre individuare le sue caratteristiche principali. Per uno spumante abbiamo sicuramente la presenza delle bollicine a farla da padrone che, come tramandano generazioni di sommelier, puliscono il palato e lo sgrassano (no, non come lo spicchio di limone nel bicchiere d’acqua o l’ananas a fine pasto; quelli non sgrassano una beata). Inoltre, abbiamo un’acidità superiore alle altre tipologie di vino. E, come insegna la tecnica dell’abbinamento per contrapposizione, queste caratteristiche ‘dure’ del vino dovrebbero andare a compensare le caratteristiche ‘morbide’ di una pietanza, nel caso specifico la sua grassezza. Di contro, dato che l’acidità del vino favorisce la salivazione, piatti molto succulenti o unti potrebbero dare sensazioni non molto piacevoli

Infine, teniamo conto degli altri tratti dello spumante: il suo sapore è intenso o delicato? Resta in bocca a lungo o svanisce in fretta? Soprattutto, è dolce o secco? Queste ultime caratteristiche devono andare di pari passo con il piatto.

Finito il sermone teorico, andiamo sul pratico. Uno spumante brut, dunque secco, lo abbiniamo a cibi non dolci (se stappate un brut per accostarlo a una torta di compleanno, io non voglio essere invitato). Spesso un brut viene servito durante l’antipasto, e ci sta dato che gli spumanti, essendo vini non corposi, ben si accostano a pietanze generalmente anch’esse non molto strutturate (ad es. i classici rustici). Ma, dato che siamo in tema stagionale, il vostro bel brut (che sia Prosecco, Franciacorta, Alta Langa, Trento DOC o anche Champagne) bevetelo accanto al cotechino. Se il brut è anche rosè, pure meglio.

Avendo invece tra le mani uno spumante dry, riservatelo per il fine pasto. Ben si accosta alla piccola pasticceria o ai biscotti da the (al panettone no: io resto un fedele servo del sublime abbinamento con il Moscato d’Asti DOCG). Qualora voleste abbinarlo a piatti non dolci, tirate fuori un bel gorgonzola. Difficilmente troverete spumanti dry che non siano Prosecco o spumanti generici, ma se vi capitasse di trovare un metodo classico dry, un Franciacorta ad esempio, è raro come un doblone.

Perché chiamiamo gli spumanti così: storie di esportazione

Ma dunque, perché definire sec qualcosa che non è sec même pas du tout? Prendendola molto alla lontana, che camminare fa bene, noi sappiamo che i vini spumanti esistevano fin dai tempi dei Romani. Fatto apicale: l’origine dell’effervescenza di questi vini era totalmente ignota e casuale. Un’origine ignota, diciamo la verità, anche al nume tutelare dello Champagne, il cellario dell’abbazia di Saint-Pierre d’Hautvillers Dom Pierre Perignon. Siamo nel XVII secolo e Dom Perignon aveva l’obiettivo di ottenere i pregiati vini di Champagne, rigorosamente fermi. Eppure con l’arrivo della primavera qualche bottiglia in cantina finiva sempre per scoppiargli, vai a capire come mai. La leggenda vuole che il buon cellario, pensa e ripensa, giungesse alla conclusione che il vino imbottigliato in inverno conteneva ancora un po’ di zuccheri non trasformati in alcol e qualche lievito; questi ultimi, con l’aumento delle temperature primaverile, riprendevano l’attività con una seconda fermentazione all’interno delle bottiglie, che avevano un vetro troppo fino per reggere la pressione al loro interno.

Le bottiglie miracolosamente rimaste integre contenevano un vino spumante, considerato un difetto per un vino fermo, ma che il buon cellario ritenne parecchio interessante, tanto da proseguire nel suo lavoro di ricerca e condividere le sue scoperte con un monaco benedettino passato a fargli visita, tale Thierry Ruinart, il cui cognome potreste aver letto su qualche etichetta.

Ok, ma la questione dello zucchero? Essa entra in gioco attorno alla prima metà del XIX secolo, con l’introduzione della liqueur de dosage o liqueur d’expédition subito dopo l’operazione del dégorgement, cioè dell’espulsione dei lieviti dalla bottiglia, operata per avere uno spumante limpido e cristallino.

Dato che con il dégorgement oltre ai lieviti si perdeva una certa quantità di vino, questa veniva ‘ripristinata’ aggiungendo la liqueur de dosage (‘sciroppo di dosaggio’ in italiano), ossia nient’altro che altro vino e zucchero. Tanto zucchero. Già, il gusto dell’epoca richiedeva che lo Champagne fosse dolce, ma proprio parecchio dolce. Questa dolcezza, sebbene rimanesse molto apprezzata alla corte dello Zar di Russia (si parla di bottiglie con oltre 300 g/l di zucchero residuo: una confettura), alla lunga cominciò ad annoiare gli inglesi. E siccome gli inglesi erano gli influencer del mercato vinicolo, come d’altronde lo sono ancora oggi, richiesero alle maison francesi bottiglie di Champagne con sempre meno zucchero. Ecco comparire dunque le prime bottiglie etichettate “half-dry”, cui seguirono altre ancora più ‘secche’ denominate “dry” e “extra dry”. Sono definizioni che oggi ci mandano fuori strada, ma che un secolo e mezzo fa davano indicazione precise a chi volesse bere uno Champagne senza il rischio di carie dentale.

Ma non basta: poiché la richiesta di minor contenuto zuccherino non si esaurì, si arriva al giorno in cui un certo mr. Burne rimase colpito dall’assaggio di una cuvée di Perrier-Jouët, la prima a cui non erano stati aggiunti zuccheri, trovandola splendidamente ‘brute-like‘. Mr. Burne ne ordinò varie casse e cominciò a piazzarlo qua e là in terra d’Albione, finché non divenne questa tipologia la più apprezzata ovunque, soppiantando ai giorni nostri lo Champagne dolce del quale rimangono solo antichi racconti e una classificazione nominale storica ma confusionaria.