Il mondo della birra artigianale è un’isola felice, o una sentina di maschilismo tossico? Il leader e fondatore di uno dei più importanti e noti birrifici indipendenti, BrewDog, è stato accusato di comportamenti aggressivi nei confronti dei lavoratori, e soprattutto delle lavoratrici. Lo hanno raccontato alla BBC decine di dipendenti ed ex dipendenti, in un documentario che ha l’eloquente titolo La verità su BrewDog, James Watt, questo il nome dell’imprenditore, viene descritto dalle testimonianze come una persona estremamente fastidiosa nei confronti delle donne, siano esse clienti o dipendenti: sempre pronto a fare avances e apprezzamenti sgradevoli, ad appartarsi con membri femminili dello staff nei suoi stessi locali, e almeno in un’occasione ad approfittare dello stato di ebbrezza di un’ospite per baciarla.
Alcune bariste dei suoi pub si sono sentite “a disagio” e “impotenti”, e in molti casi i manager di locali e stabilimenti hanno programmato i turni in maniera tale da evitare che ci fossero ragazze quando era previsto un passaggio di Watt. Il quale, tramite il suo legale, respinge tutte le accuse e smentisce qualsiasi comportamento inappropriato. La stessa BBC precisa che in ogni caso non si parla mai di ipotesi di reato, che il programma non fornisce prove di illeciti penali. Il punto è però, ovviamente, lo squilibrio di posizioni che c’è tra il capo supremo dell’azienda e l’ultima delle dipendenti, l’abuso di potere: come fai a non essere condizionata, a mandare a quel paese – come faresti con il tizio che ti fischia dietro per strada – l’uomo da cui dipende il tuo lavoro e in ultima analisi la tua vita?
La cosa fa notizia non solo in sé, ma anche per la particolare allure che circonda BrewDog: l’azienda scozzese si presenta come punk, giovane e moderna. In generale, si nota la meraviglia un po’ naif che accompagna il venire a galla di episodi simili: già a maggio 2021 avevamo scritto di un piccolo #metoo nel mondo della birra, partito dalla denuncia di episodi su Instagram. La stessa inchiesta della BBC è partita dopo che nel giugno scorso 300 dipendenti ed ex dipendenti del birrificio avevano scritto una lettera in cui si accusava Watt di aver instaurato un regime tossico, un’atmosfera di paura. Lo stupore evidentemente deriva da una (mal riposta?) fiducia nei confronti dei piccoli birrifici e del mondo della birra artigianale, percepito come alternativo al sistema, come portatore di valori opposti a quelli associati alle multinazionali brutte e cattive. Il movimento della birra artigianale è recente, i suoi eroi giovani: per esempio, quando James Watt fonda BrewDog, nel 2007, ha solo 24 anni (e quindi oggi comunque meno di 40).
Che poi bisognerebbe anche chiedersi cosa significa artigianale, visto che a questo nome resta appiccicato non solo un sottotesto di qualità del prodotto, ma anche una certa street cred. Brewdog per esempio, sempre per restare al protagonista di oggi, nel 2016 ha aperto il suo primo bar negli Usa; attualmente ne ha otto in tre stati americani, e in tutto il mondo possiede 100 locali, impiega più di 2.000 persone ed è valutata circa 2 miliardi di sterline (quasi due miliardi e mezzo di euro). Un piccolo impero. Possiamo ancora parlare di artigianato? Il fatto è che in molti posti, Stati Uniti compresi, non è come in Italia, dove ci sono dei parametri precisi per poter vendere come “artigianale” un prodotto. Ma comunque, si vede anche a occhio: la Punk Ipa di BrewDog la trovo pure al supermercato sotto casa – ora che ci penso, in questo momento ne ho addirittura una lattina in frigo, mi sa che quando la aprirò, se mai la aprirò, mi sembrerà ancora più amara.