La birra artigianale è in crescita, la birra artigianale è in crisi? La birra artigianale è in stallo, più che altro. E per uscire da questa situazione di stasi, per espandersi e coinvolgere un maggior numero di consumatori, cosa deve fare? Forse ascoltare i consigli della sorella maggiore: la birra industriale. Facendo attenzione, e sperando, che non sia un canto delle sirene.
È la riflessione che viene da fare ascoltando la tavola rotonda sull’analisi del mercato della birra artigianale italiana, tenutasi a inizio ottobre nel corso dell’ottava edizione di Eurhop, Il Salone Internazionale della Birra Artigianale, e ora messa online in un video. Con la moderazione (e gli interessanti dati) di Carlo Schizzerotto, Direttore del Consorzio Birra Italiana, c’era Teo Musso di Baladin, Presidente Consorzio Birra Italiana, che in nome del movimento birrai artigianali è stato lì sostanzialmente a prendere lezioni, se non cazziatoni, da rappresentanti dell’industria come Davide Daturi, senior consultant beverage già AD di Dibevit (costola di Heineken dedicata al settore premium e birre speciali), Stefano Baldan, AD di Brew Rise, e Simone Battistoni, brand ambassador Guinness.
La birra artigianale italiana in cifre
Dal 1994 ad oggi hanno avviato l’attività 1047 microbirrifici e 289 brew pub, per un totale di 1336 unità produttive, ha introdotto le sue slide Carlo Schizzerotto, Direttore del Consorzio Birra Italiana. Hanno cessato 168 microbirrifici e 83 brew pub: una mortalità bassa rispetto ad altri comparti, il 18,5%. Oggi ci sono più di mille realtà produttive attive, e ogni provincia d’Italia ha almeno un microbirrificio.
Da una serie di dati storici si evince come l’anno di svolta sia stato il 2008: da lì c’è stato un boom nella crescita del movimento birra artigianale, con un tasso del + 20% annuo. E in quel momento c’è stato il passaggio cruciale nella cosiddetta curva di Rogers, che studia l’espansione dei nuovi mercati: il primo 2,5% sono gli innovatori (corrispondenti nel nostro caso agli anni 1995-1999), il 13,5% sono gli anticipatori (1999-2008), il 34% maggioranza anticipatrice (2008-2014), l’altro 34% la maggioranza tardiva (2014-2018), infine il 16% ritardatari (dal ’18 a oggi). Nel 2008 c’è appunto stato il cosiddetto “abisso di Moore”, cioè il momento in cui c’è maggiore convenienza a entrare in un mercato.
In generale il mercato della birra è in costante crescita da allora: si passa dai 15 milioni di ettolitri del 2009 ai 21 milioni nel 2021 (dati Assobirra). Una birra su 3 è importata.
Nel 2009, in seguito alla crisi dei mercati finanziari dell’anno prima, c’è stata una forte contrazione dei consumi di birra, come dell’economia tutta. Consumi che sono tornati ai livelli pre crisi solo nel 2015 (31 litri pro capite, ora 35). Altro dato interessante è che il consumo alcol puro è inversamente proporzionale alla crescita del consumo di birra: se ne deduce che il consumatore preferisce un tasso alcolico basso.
E ora i punti dolenti: il mercato interno della birra è passato dal 67% del 2008 al 62% del 2015. Cresce però l’esportazione. Ma il dato peggiore per il comparto birre artigianali arriva di recente, anche se è un trend che è partito già da qualche anno. Al di là del 2020, l’anno del Covid, negli anni ci si sta spostando sempre più sul consumo domestico (63%) rispetto alla birra al pub. Il che si ripercuote soprattutto, se non esclusivamente, sulla birra artigianale: – 40% nel 2020, -28% nel 2021, quando poi il totale del mercato non è diminuito. Perché la birra artigianale è preferibilmente bevuta fuori, quella industriale comprata al supermercato: se scende il consumo al pub crolla quello di craft beer.
Ma il dato più deprimente è quello che riguarda la quota mercato della birra artigianale: che dal 2015 a oggi oscilla in una stretto range tra il 3 e il 3,5%, sostanzialmente statico. Eppure il movimento della birra artigianale è stato positivo per tutti, ha concluso Schizzerotto: “Ha portato grande innovazione, perché ha fatto parlare di qualità oltre che di prezzo, sia ai distributori che ai consumatori: di territorio, di torbidità, di stili”.
I consigli dell’industria alla birra artigianale
Ma ecco che arrivano le osservazioni e i consigli dei fratelli maggiori (o concorrenti?) della birra industriale. Davide Daturi, ex Heineken, dopo aver lodato la rilevanza del movimento artigianale, e aver candidamente ammesso che l’industria ha sfruttato e ripreso stili e modalità nati nel mondo craft, ha osservato che per crescere bisogna lavorare innanzitutto sul consumatore, e solo dopo sul trader, che viene stimolato dalla domanda. “L’unico modo che avete per poter vendere il prodotto è fare sì che qualcuno lo beva. Bisogna andare a prendere il consumatore medio e cercare di inserirlo, ma dobbiamo dargli l’accessibilità, non si può continuare a fare prodotti di nicchia di 9 o 10 gradi. Questo non vuol dire solo bassa fermentazione ma prodotti accessibili, raccontati con un gergo comprensibile alla massa”.
“Tutti nel movimento – ha proseguito Daturi – hanno lavorato molto sulla parte dell’innovazione ma non tanto su quella commerciale e finanziaria (questa un po’ di più per forza di cose): bisogna lavorare su tutti i pilastri, non serve fare ottimi prodotti se questi poi non vengono venduti. Tra gli elementi fondamentali il principale è la riconoscibilità: non fare cento prodotti all’anno tutti e sempre diversi, non ci possono essere solo chicche”. Più accessibilità, meno varietà: insomma se vuole crescere il mondo artigianale deve diventare più facile.
Stefano Baldan ha messo l’accento sul fatto che quello italiano è un mercato giovane, un mercato che può crescere: perché è ancora uno dei mercati che beve meno birra a livello internazionale: “Su questo tutti i componenti del mercato della birra dovrebbero essere uniti e non divisi: spingere il consumatore verso la birra. L’interesse verso la birra speciale italiana c’è. Ma non possiamo pensare che siamo “di pochi”. Se noi adattiamo il consumatore a un altro gusto, lui non berrà più quello che beveva prima”. Fare squadra insomma, e non essere di nicchia, ancora.
Simone Battistoni di Guinness ha sottolineato le somiglianze più che le differenze di un brand pur industriale come il birrificio irlandese, e il mercato della birra craft. E l’importanza del turismo legato alla birra: “È bellissimo esser presenti in tante regioni con tante storie diverse, ma a un certo punto bisogna anche compattarsi per ottenere qualcosa in più”. Di nuovo, unità e semplificazione.
A tirare le fila del discorso, il patron di Baladin e pioniere della birra craft Teo Musso. Che ha sintetizzato il percorso della birra artigianale: “Nei primi dieci anni abbiamo cercato di costruire un’identità italiana. Avevamo davanti un foglio bianco, il che è stato una fortuna, perché in Italia venivamo da una storia, i birrifici nati tra fine 800 e inizio 900, di birra tedesca. Dal 2006 in avanti arriva in italia l’onda dei luppoli, la birra diventa una ‘spremuta di luppolo’, che viene identificata dal consumatore come artigianale: questo confonde un po’ quello che c’era in precedenza. Ed è il primo errore strategico fatto dalla birra artigianale, perché l’aspetto da valorizzare non è quello legato all’uso di certe materie prime, soprattutto se non sono locali. Così si è persa un po’ l’identità mentre si portava verso la birra un pubblico più grande”.
Altri errori, riassumendo gli interventi dei tre relatori prima di lui, Musso ha individuato i tre punti di criticità del mondo artigianale: 1) non sappiamo fare azienda, 2) non sappiamo fare squadra, 3) non sappiamo raccontare un territorio.
E le possibilità per il futuro? “Sono convinto che il mercato sarà in crescita sulle specialità, non necessariamente alta gradazione o estremi, ma che birre che devono portare un’emozione, essere diverse. Sempre più gente consumerà birra, sempre più gente consumerà meno birra (meno alcol in generale): queste due cose rappresentano una possibilità per il mercato della birra artigianale. Il Covid ci ha costretto a una riflessione (cosa che il mondo della birra artigianale di solito non fa): nel 2005 ero convinto che saremmo arrivati a fare i 10% del mercato, non è così e questo sicuramente è colpa nostra, più che merito loro (dell’industria)”.
Come esempio di mancanza di unità Musso cita la discussione sulla legge: “Siamo l’unico paese europeo se non mondiale che identifica cos’è la birra artigianale, che il nostro mondo invece che vedere come una cosa pazzesca, come un’opportunità, vede in maniera negativa e critica”.
È mancata la figura di un leader “una figura che unisse il movimento”. Ma manca anche interesse: “In questo momento – ha concluso Musso riferendosi ai birrai presenti agli stand di Eurhop – ci sono 60 70 microbirrifici che avrebbero la possibilità di essere qui a leggere questi dati e prendere coscienza di quello che dovrebbe essere il lavoro: ce n’è uno o due”. I microbirrifici italiani non vogliono crescere? O non vogliono seguire i consigli dell’industria?