Caro Valerio Massimo Visintin, critico gastronomico del Corriere della Sera,
questa volta non mi sei piaciuto. E parlo in prima persona, da giovane appassionata di birra artigianale, perché oggi, leggendoti, ho avuto un brivido lungo la schiena. Ti prego di ripercorrerlo con me, dal coccige alla nuca.
Scorro Facebook e scorgo il tuo titolo “L’era della birra al calzino (ma artigianale)“. “Finalmente”, mi dico, il mitico critico mascherato parla di birra craft. Era anche l’ora: se la sarà preparata bene.
Apro. Leggo il tuo dialogo con un’amica immaginaria sprovveduta che domanda come sia, questa blasonata birra artigianale.
“E’ per amatori. Sa di calzino“.
Ah-ah, riduttivo ma sorrido. Il fanta-elenco della carta delle birre, poi, è uno spasso:
“La Sarkiapella del Birrificio Casalmonile, la Butagiò del Birrificio Giuvinòtt e una craft ambrata acida, parzialmente scremata al ferrocromo e metal con doppio innesto regolabile, del birrificio Andovai sito in località Tramalone”.
Parte l’arringa. Ce n’è per tutti:
I ristoratori: “Che tengono in lista qualche birra per onor di firma, lasciandosi fanciullescamente trascinare dal flusso delle mode“.
I birrai nascenti: “Ci si improvvisa mastri birrai con la facilità con la quale ci si inventa giornalisti gastronomici“.
E quelli navigati: “Teo Musso, Farinetti del luppolo, imprenditore operaio dal ricciolo malandrino“.
(In pratica: se inizi a fare birra sei un poveraccio senza futuro e se poi riesci a venderla sei cosa… un imprenditore senza scrupoli? Non so cosa intendi: provo a cercare su Google “Sinonimo Farinetti”)
Per finire, te la prendi con i nerd della birra in genere, gli appassionati cronici: “Tutti s’azzuffano al penultimo sangue nei forum di settore, ma si riconoscono nel vangelo secondo Kuaska, profeta dal nome misterico, narratore di birre e, più che altro, cantastorie di se stesso“.
Ma sì, stai facendo caricature. C’è una frase, però, che mi fa trasalire:
“Se devo bermi una blond o una tripel, per capirci, tanto vale scegliere un artigiano belga. Berreste volentieri un vino in “barolo style” prodotto in Germania o in Danimarca?”
Ma come, Valerio Massimo. Mi pesi le patate con i pistacchi di Bronte. Innanzitutto, se il “barolo style” non si può fare in Germania, un motivo c’è. Ci sarebbero peraltro un paio di leggi in merito e l’Unione Europea è parecchio severa sulla faccenda.
E poi che c’entra, lo stile tripel è di origine belga ma in Italia ci sono fior fior di produttori che lo realizzano bene. Extraomnes, Manerba, Toccalmatto e molti altri.
Tra l’altro hai appena detto che non ci si può “aggrappare alla retorica della cultura agreste” come si fa nel vino. Insomma, che la birra non ha il benedetto terroir. E allora che male c’è a fare una tripel in Italia? Lo mangerai pure il sushi a Milano.
A dirla proprio tutta, pure questa cosa della cultura agreste è vera solo a metà.
Ormai un annetto fa il Beer Judge Certification Program, che si carica sul groppone la pubblicazione delle “Style Guidelines“, ha definito lo stile delle Italian Grape Ale.
Trattasi di birra “Ale italiana, caratterizzata da diverse varietà di uve, a volte rinfrescante, altre complessa”. Come noteranno i lettori si parla apertamente di identità territoriale (“italiana”), mentre il vitigno entra nella descrizione del sapore (“caratterizzata da diverse varietà di uve”), così Visintin potrà leccarsi i baffi sotto la maschera (suppongo che li abbia) bevendo finalmente una birra artigianale italiana fatta con metodo italiano da un artigiano italiano.
Magari una IGA di Barley, per citarne una che non puzza di calzino.
Proseguo fiduciosa nella lettura, nonostante la vena sempre più in rilievo sul collo. Mi dico che adesso arriva il “però”, il momento in cui Visintin distingue tra bene e male. Mi dico che ora cita due nomi a caso di birrai esemplari, ora precisa che questa ascesa modaiola dev’essere un pretesto per fare cultura e incentivare il buon artigianato italiano. Solo quello buono però, perché chi lavora bene deve potersi fare spazio nella confusione generale, a scapito di chi si butta sul carro con la birra al calzino.
Dillo Visintin, dillo!
Ma temo di essere ormai arrivata al momento di massima tensione, allo spannung letterario: lo spassoso sfottò sui birrai come nuovo topos della narrazione gastronomica. Uff. Dimmi che non finisce qui, dimmi che il finale non è questo. Peggio: lo stramaledetto sarcasmo riduzionista.
“Trovare un prodotto artigianale italiano buono, privo di difetti, stabile, equilibrato, digeribile, a un prezzo congruo è un terno al Lotto“.
Ecco Visintin, è proprio questo il punto. Non si deve puntare il dito a caso su una birra in elenco, si deve poter scegliere. E chi seleziona le birre prima dei consumatori, deve almeno provare a capirci qualcosa.
La carta delle birre al ristorante è quasi sempre uno status symbol, su questo concordo con te. La maggior parte dei locali blasonati scelgono le etichette con lo stesso criterio che adotterei io per formare una squadra di rugby. Diciamolo però, che se chiedi informazioni in merito, i maître, al massimo, ti rispondono balbettando “non filtrata” (requisito di ogni birra artigianale, almeno secondo la legge nazionale).
Vogliamo dire che nei sopracitati menù le birre industriali si alternano indistintamente a quelle craft, creando una confusione abissale nel consumatore? Che alcuni ristoratori sono talmente impreparati sul tema da portare al tavolo il secchio del ghiaccio, insieme alla birra?
Della serie “Oh, questa è roba figa”.
21 anni di storia della birra artigianale italiana, con molti riconoscimenti nei concorsi internazionali che distinguono (o almeno provano a farlo) chi lavora bene da chi ha poca credibilità sul mercato. E poi ci sono quelli che non amano la ribalta e aprono locali sul loro territorio. Ma funzionano, funzionano eccome, e fanno lavorare parecchia gente. Ma niente Visintin, facciamo finta che in questi anni non sia successo niente.
Tu dici: “Rispetto alle grandi marche, la maggioranza delle nostre realtà artigianali manca della forza tecnologica ed economica necessaria per controllare analiticamente la qualità delle materie prime e persino per garantirne la conservazione ideale”.
Vero, artigianale non è sinonimo di buono. Ma le realtà virtuose non sono così rare e una birra artigianale fatta bene avrà sempre più identità e carattere di una birra industriale. Vale la pena di provarci. Poi, se vogliamo parlare di forza economica, non c’è dubbio che le industrie abbiamo una potenza tale da comprarsi pure i birrifici. E difatti accade.
Per chiuderla, lo so, caro Visintin, che non volevi farne una questione di Stato. Non bisogna prendersi troppo sul serio, gallina vecchia fa buon brodo e via discorrendo.
Ma guardiamoci in faccia. Okay, scherzavo: guarda me, guarda me.
La deriva modaiola sguazza nel pressapochismo e così facendo non l’hai certo ostacolata. Eddai, che ti leggo: due cosette sulla birra le sai, potevi metterlo qualche puntino sulle i.
Per usare una metafora: hai portato il megafono alla bocca e, invece di dire qualcosa di produttivo, hai fatto una pernacchia.