Si dice, tra gli insider della birra artigianale, che questo sia l’anno del “grande Belgio”, che sia l’ora di “tornare” alle belgian ale, alle tripel e alle saison per stare al passo con i tempi. La birra belga, però, ultimamente ci ha delusi, attraverso i prodotti di alcuni dei suoi birrifici iconici.
È accaduto al Villaggio della Birra, festival di inizio settembre che si tiene ogni anno a Buonconvento (SI), dove abbiamo cercato di rispondere a una domanda assolutamente irrilevante per molti, fondamentale per gli appassionati di birra come me: dopo il boom delle basse fermentazioni tedesche, è forse l’anno del buon vecchio Belgio?
Il Villaggio della Birra
Sono ormai passati tredici anni da quando Gianni Tacchini, proprietario del TNT Pub di Buonconvento (SI), venne l’idea di organizzare un festival dove riunire per la prima volta in Italia produttori belgi ed italiani. Nel 2006 partì come una vera scommessa: un evento dedicato alla birra nel cuore della terra del vino; vuoi che i paradossi affascinano, vuoi per il contesto bucolico, l’evento ha fatto breccia nel cuore degli appassionati e si è ascritto a pieno titolo nella lista dei festival di birra annuali imprescindibili, complice una selezione sempre più ampia, che nel tempo si è allargata a tutta Europa e agli Stati Uniti.
Questo è stato per me il decimo Villaggio consecutivo, e con lo stesso approccio del primo anno ho puntato ad assaggiare quanti più produttori belgi possibili (sono uno vecchio stampo), ma soprattutto per dare se possibile una parziale risposta a quanto si vocifera da qualche tempo a questa parte tra i geek birrari.
Lo abbiamo letto più volte e quella che in primis sembrava una affermazione provocatoria è stata condivisa, ricondivisa, fino a diventare un dogma per la stagione birraria 2019.
È veramente l’anno (del ritorno) del grande Belgio?
Ma soprattutto, perché ritorno?
Andiamo per gradi.
Il Belgio in Italia, ieri e oggi
Possiamo affermare con una certa sicumera che dalle birre belghe sono partiti la maggior parte degli appassionati italiani: le prime trappiste, le prime saison, le prime t-r-i-p-e-l erano ricercate nei pochi illuminati pub che sul finire degli anni 90 iniziavano a trattare con più consapevolezza il prodotto birra.
Se il consumo è importante, figuratevi la produzione.
Agli albori della birra artigianale italiana (parliamo della seconda metà degli anni ’90), il ruolo fondamentale lo giocò Teo Musso, con il suo Baladin, che iniziò la sua attività proprio ispirandosi agli stili del Belgio (che caratterizzano il birrificio piemontese tutt’oggi).
La sua Super fece breccia nel maggior esperto di birra italiana, Lorenzo Dabove (Kuaska), che ne rimase folgorato. Poi arrivarono la saison Wayan, la blanche Isaac e altre.
Baladin tracciò la via, e da lì in poi altri produttori hanno attinto tanto dal Belgio per creare le loro flagship beer; citiamo Maltus Faber, Croce di Malto, Birrificio del Forte ed Extraomnes (che, tra l’altro, fece una delle primissime uscite proprio al “Villaggio”, nell’edizione 2010).
Quando il Belgio ha stancato (e poi ci è mancato)
Dopo i primi anni, in cui ogni birrificio produceva in base alle proprie esperienze, conoscenze, capacità apprese negli anni di homebrewing casalingo, è arrivato volente o nolente il momento in cui è stato il consumatore, nel frattempo resosi più consapevole e capace di indirizzare il mercato, a decidere quali fossero gli stili da ritrovare alle spine.
Abbiamo avuto la fase delle birre amare a tutti i costi, del “Damme una IPA” ripetuto al bancone come un mantra, delle pinte possibilmente molto alcoliche ma sopratutto molto luppolate: un passato recentissimo che ha visto Roma farsi trendsetter del mercato artigianale, fenomeno durato qualche anno e poi rientrato.
Presto parlare di IBU (l’unita’ in base alla quale viene misurato l’amaro nelle birre) è diventato demodé e, tana libera tutti, i birrifici hanno iniziato a sbizzarrirsi: sempre più italiani si sono dati alle acide, alle salate, alle birre con frutta, erbe o spezie, fino all’esasperazione, le “birre Disney”, come le chiama Kuaska per indicare prodotti totalmente stravolti negli ingredienti solo per fare colpo nel consumatore occasionale e non.
Poi accade l’inaspettato: dal marasma delle imperial stout al cocco e degli aromi assurdi si è passati a una tendenza totalmente inversa, una sorta di tensione al minimalismo veicolato dall’arrivo in Italia dei prodotti della Franconia tedesca. Sono gli anni delle basse fermentazioni, il concetto di lager come “birraccia” nel dimenticatoio a favore di un avvicinamento alla Germania brassicola.
Keller, pils, rauch e altrettante variazioni sul tema sono diventate presenze fisse nelle tap list dei più importanti locali italiani, protagoniste in festival dedicati come il FrankenBierFest di Roma.
E i birrifici italiani, da grandi interpreti, non sono rimasti a guardare: se Birrificio Italiano è storia (si dedicò agli stili tedeschi negli stessi anni in cui esordiva Teo, facendo da contraltare alla sua produzione), Elvo e Mukkeller sono la tendenza di oggi.
Mentre la Germania incalza, anche il Belgio può e deve dire la sua: i tempi sono maturi per ritornare ai fasti di un tempo e ad interpretazioni, anche italiane, capace di lasciare il segno. Canediguerra, celebre birrificio dell’alessandrino, ha creato una linea di birra belga giusto quest’anno e pure Mukkeller, che deve il suo successo alle basse fermentazioni, è diventato Birrificio dell’anno 2019 anche grazie alla sua strong ale “Mukkkamannara“.
L’emozione di una tripel, la freschezza di una blanche, la rusticità di una saison, la profondità di una quadrupel: insomma, c’è del materiale.
Villaggio 2019: i bocciati in “terra belga”
Alcuni tra i produttori belgi più conosciuti sono ospiti fissi del Villaggio della Birra; penso a De Ranke, a Glazen Toren, a Cazeau, a De La Senne. Ecco, questo è stato l’anno decisamente peggiore per le loro produzioni, anche per lo stesso De Ranke che è sempre stato considerato un assegno circolare (cit.).
Birre stanche, senza brio, con evidenti difetti sia a livello di produzione che di fermentazione.
Mai come quest’anno è apparso evidente il gap tra il Belgio, prodotto dai belgi, e le altre birre presenti al festival.
Rifare senza drammi, si usa dire. Beh qui il dramma c’è, è stato palese, ancora più degli scorsi anni.
L’unica eccezione positiva è arrivata dalla Brasserie de Blaugies, con una batteria di capolavori capitanata dalla bucolica Saison D’Epautre, e una Vermontoise da strapparsi le vesti, i capelli, e pure il resto che rimaneva addosso.
È davvero l’anno del ritorno del grande Belgio? Se dovessimo aspettare segnali dalla base, direi proprio di no.
Dobbiamo aspettarci che sia l’Italia a far tornare in auge il “grande Belgio?”. Si auspicano tantissime riconferme per i prossimi mesi, sia dai birrifici storici che dai novizi, ma solo tra un anno potremo dire se davvero i geek italiani ci avevano visto lungo o se era soltanto una boutade del momento.