“Venghino siori venghino a visitare il nuovo birrificio Baladin“, ci hanno detto. Quello più grande e più moderno, quello che ti fa vivere a un palmo dal naso la produzione della birra artigianale più famosa d’Italia.
Così abbiamo impostato il navigatore su “Località Valle, 25, Piozzo (CN)“, là dove finiscono le Langhe e inizia il nulla introdotto da una fondovalle, dove da qualche tempo i vigneti confinano con i luppoleti.
Arrivati a destinazione notiamo che le piante devono ancora crescere, e si sommano a una quantità di costruzioni in itinere e visioni future legate al progetto abnorme del nuovo birrificio Baladin.
Sono quindici i milioni di euro già investiti e presto si aprirà un crowdfunding per rendere l’area verde circostante uno spazio che “tutti possano sentire proprio”, a detta di Teo (dove andremo a campeggiare sbronzi, in pratica).
Teo è Teo Musso, the man behind, il fondatore visionario, la sua presenza fa sentire tutti come Charlie ne La Fabbrica di Cioccolato, come se avessimo trovato una targhetta d’oro dietro al tappo di una Nora, una delle sue birre più famose.
Noi che pensavamo al classico tour aziendale, con annessa imposizione di mascherine e cuffiette, ci troviamo di fronte a una cascina del XIV secolo ristrutturata a metà. Uno di quei lavori lasciati a metà con un po’ di ostentazione perché il mattone a vista è il mattone a vista, vuoi mettere.
Aggiungete che c’è ancora molto da fare.
Sotto i portici, dove ora si sforna pizza di Gabriele Bonci a sfinimento per la festa dei trent’anni di Baladin, ci saranno le bancarelle in stile Mercato della Terra.
Accanto alla cascina troveranno posto forno e brace (il senso è che uno si compra le cose e poi le fa cuocere lì, per poi sgranarsele nelle aree pic-nic) e ovviamente un pub, ma al momento non sappiamo dove, presumibilmente al secondo piano, né quando, mettiamo tra un paio d’anni.
Passiamo attraverso gli uffici del personale e ci addentriamo nel birrificio di neo-costruzione attraverso una sopraelevata.
Subito, i cartelli e le pareti pittate a metà tra slogan aziendali e spiegazioni illustrate di come si lavora la birra, ci riportano alla realtà: noi e le decine di giornalisti presenti al tour non siamo i fortunati vincitori di una lotteria indetta da Willy Wonka. Questi spazi sono aperti, potranno venirci i nerd dell’artigianato brassicolo e i gozzovigliatori a vario titolo.
Altro messaggio chiaro: il controllo della filiera. L’uso di materie prime autoprodotte raggiunge al momento l’85%, con l’obiettivo del 100% entro il 2020.
Aiuta anche la fortuna, o saranno forse le felici combinazioni astrali. Con 400 ettari di orzo da maltare e il record della prima coltivazione di luppolo, il nuovo birrificio si trova accanto a sorgenti di acqua pura.
L’impianto per cuocere la birra è una spacconata: 5.000 litri di capienza per un potenziale di produzione annuo di 50.000 ettolitri. Prima, per capirsi, era da 3.500 litri.
Tutto è automatizzato, per esempio, le spezie usate da Baladin come la scorza di bergamotto calabro e la mirra etiope si immergono da sole.
Accanto al mastodontico apparecchio, come se fosse in scala, si trova il micro-impianto (300 litri) usato dai mastri birrai di Scienze Gastronomiche che rende Baladin uno chiccoso distaccamento didattico dell’Università di Pollenzo.
E per rimarcare il legame con la scuola di Slow Food, un video firmato dal corpo docenti produce il primo momento commozione della giornata: un romanzato Teo Musso tra i campi di grano rivede a sé stesso bambino.
La risposta alla domanda che vi state facendo è sì: tra gli impianti di produzione di Baladin c’è un grande-schermo.
La cantina con barrique annesse è roba far invidia ai confinanti produttori di Barolo. Qui si affina in legno, per esempio, la birra dal nome più impronunciabile del mondo: Xyauyù, scura e ad alta fermetazione.
Ma la vera chicca è il Kioke, botte in cipresso centenario e bamboo che nella normale natura delle cose sarebbe destinata alla produzione artigianale di salsa di soia.
Invece no: si trova qui per ospitare la fermentazione della Xyauyù Kioke, che, considerati i 30 ettolitri di capienza del recipiente, non vedremo nei bar, come succede con la Isaac.
La struttura circolare di un romanzo come si deve, chiede che anche questo racconto finisca con un inizio. Del resto, da uno che si fa chiamare El Baladin (il cantastorie) non possiamo aspettarci altro.
Teo Musso porta tutti tra le carovane del Cirque Bidon –in questi giorni al birrificio per la festa dei 30 anni– poi racconta la storia dei giocolieri che 34 anni fa arrivarono a Piozzo. Dove, allora, non mancava solo la birra artigianale: non c’era proprio un tubo di niente.
Lui, giovane e pieno di sogni, di quel mondo si è innamorato.
E cos’ha fatto, la valigia? Ha imparato come si lanciano in aria sei palline contemporaneamente?
No. Ha trovato il modo di attingere a quel mondo grazie a un bel nome trovato con l’aiuto di François Rauline (detto appunto “Bidon”), il fondatore del circo.
Il nome è Baladin, e mentre lo raccontava, ci siamo inteneriti persino noi.