In occasione del World Liqueur Awards 2022, il varesino Amaro Rubino Bio ha vinto il titolo di miglior liquore alle erbe: le sinapsi si accendono sul miele locale, per poi accelerare il ritmo su erbe prealpine come l’issopo e aromi quali timo e alloro*. C’è Matteo Rubino alla base di questo risultato, e l’ho intervistato con lo scopo di approfondire ciò che funziona e ciò che non funziona nella liquoristica italiana. Riporto anche un lucido racconto sul progetto, che da cerebrale diventa concreto tra foraging, investimenti, etica su bio e biodinamica, scelte ben precise, e riti propiziatori quasi esoterici. Insomma, oltre all’Amaro Rubino Bio in sé si parla anche di cosa aspettarsi e di quali passi compiere in questo mondo che conosce alti e bassi molto frequenti.
Pur essendo varesotta e non varesina conosco bene la città di Varese: è fatta di poeti e teatro, medici e avvocati, musica e sogni nel cassetto, di natura romantica dal centro al Sacro Monte, dove si respira l’Ottocento. Non è facile – in tutto questo contesto – ritagliarsi un proprio spazio, a meno che non si scelga di abbracciare il territorio creando una rete sinergica: ed è quello che ha fatto Rubino, puntando su produttori locali e filiera corta. Anzi, cortissima. Da qui si può arrivare (e Rubino è arrivato, di fatto) lunghi in molti locali e ristoranti italiani, e poi al Vinitaly, e al Taste Firenze, al Bar Covent Berlin, a Brooklyn, in Australia, e perché no anche in Islanda.
La liquoristica non per tutti
Aggettivi come tradizionalista e maschilista sono attribuiti da Rubino al mondo della liquoristica, settore molto forte in Italia ma spesso dimenticato o statico. Oggi le cose si stanno muovendo meglio, non per caso: “sta tornando una passione vivida, soprattutto da quando un po’ tutti hanno scoperto quanto sia facile produrre il gin (che è facile da aromatizzare e distillare, inoltre non necessita di invecchiamento), e grazie o per colpa di questa moda l’interesse è diventato più ampio”.
Anche a livello burocratico le cose sono leggermente più semplici rispetto anche solo a pochi anni fa: “prima le licenze erano perlopiù ereditate” – racconta Rubino – “quelle per i nuovi richiedenti e i nuovi progetti non sapevano come farle, mentre ora c’è più reattività” a fronte di un rigore sempre altissimo della dogana per la cosuccia del monopolio di Stato. Amaro Rubino Bio sta proprio assistendo in prima linea a questo nuovo fervore per la microdistilleria, definita da molti un movimento emergente, come lui stesso ha notato presso le fiere di settore.
Il destino di Vinitaly &Co
Il primo Vinitaly post lockdown è stato abbastanza memorabile, racconta Rubino, perché c’era quello spirito di rivalsa e comunione che ha trainato moltissime realtà. C’è chi sostiene che Vinitaly sia superata, infatti Barolo e Barbaresco se ne sono chiamati fuori, ma si tratta comunque di un polo magnetico del settore vitivinicolo e liquoristico. Amaro Rubino Bio aveva partecipato con uno stand: “Vinitaly non finirà mai perché è storico e attrarrà sempre molta gente, ma è il format “fiera” che ha bisogno di una rivisitazione“.
Rubino, in quanto piccola azienda B2B, riporta un comune sentore ad altri colleghi: “il concept di Vinitaly è dispersivo, e il piccolo produttore è in difficoltà rispetto ai grandi marchi. Ben diversa l’esperienza più democratica al Taste Firenze, dove la qualità di selezione era altissima sia da parte di chi espone sia da parte dei buyer, anche esteri”. Ben diversa anche l’esperienza al Bar Covent Berlin in Germania, dove gli spazi e i riflettori erano distribuiti equamente e le opportunità erano più concrete.
Da “eravamo 4 amici al bar” al World Liqueur Awards
Tra il dire e il fare, così come tra il sognare e il concretizzare, ci sono di mezzo tantissime cose. Varese ha visto nascere Amaro Rubino Bio poco alla volta e grazie alla metodicità rigorosa del creatore, che ha iniziato da solo ma circondato da giudizi sinceri: quelli di amici e conoscenti cui sottoponeva il liquore chiedendo un’opinione ragionata, e quelli di sconosciuti cui chiedeva di compilare un questionario a fronte di un assaggio gratuito. Questa, semplicissima, pratica lo ha “aiutato a capire che il riscontro positivo non era solo affettivo bensì onesto, perché cominciavano ad arrivare richieste e secondi, terzi ordini: è il fattore che, ancor più del titolo agli Awards, ha fatto mettere radici solide al progetto”.
Al World Liqueur Awards ci si candida, che si abbia un liquore inedito o che si abbia un liquore famoso in tutto il mondo e vecchio di generazioni; una giuria internazionale procede con un blind taste a porte chiuse (un po’ come il nostro panel annuale dei panettoni), il che significa competere con accanto storiche colonne che si trovano anche nella GDO. E il responso è arrivato in sordina, tramite un’email che poteva quasi sembrare spam tanto era anonima: “ero in casa positivo al covid, ho visto la proclamazione, ho riletto qualche volta quelle fredde righe e sono esploso. Da li è seguito un commosso aperitivo su zoom con tutti, sorseggiavo un gin tonic – corretto Rubino ovviamente”.
Tra dubbio e bio
Il bio (insieme al chilometro zero) ha un potenziale immenso, purtroppo sconsacrato talvolta dalla corsa all’etichetta per puri fini di marketing e di vanto: “è diventata come una lobby, che fa tendenza ma cerca solo di certificare più attori possibili all’interno della filiera”, sostiene Matteo Rubino che, anche se ideatore/venditore e non (ancora) produttore del suo omonimo liquore, per essere certificato bio dovrebbe pagare una cifra non indifferente. Mi spiega che non è mai stato questo il suo obbiettivo. Amaro Rubino nasce infatti in concomitanza all’idea di valorizzare e dar voce alla zona in cui è cresciuto – con un piccolo omaggio anche alla Calabria, patria dei nonni, tramite la liquirizia calabrese messa accanto alle erbe prealpine – e ciò che ora è marchiato come biologico per lui è semplicemente la conditio sine qua non per qualità e sentimento.
Si ammette, tuttavia, anche una verità: “vedere un prodotto certificato bio ha vantaggi oggettivi perché ha più presa, è più sentito, fa sentire più alta la tua voce”, continua Rubino. Insomma se ottenere il bio è una strada lastricata di perplessità e dubbio, scegliere di vivere il bio a prescindere dall’etichetta non lo è affatto: è solo molto impegnativo, soprattutto se non si scende a compromessi.
Foraging e biodinamica alla base
Creare un liquore che raccontasse di Matteo Rubino e della terra in cui è cresciuto è stata la leva per tutte le decisioni prese, sin dalla prima foglia raccolta: niente coloranti, niente aromi, niente erbe che non fossero colte spontaneamente o provenienti da agricoltura biologica e biodinamica, soprattutto niente presunzione. Ogni decisione è stata dettata dalla curiosità di Rubino, che metteva sotto spirito di tutto: “da foglie a cortecce, da fiori a funghi, giravo nei boschi al Campo dei Fiori e in Valganna con la mia bibbia – un compendio botanico ed erboristico di un autore locale – accettando di buon grado i consigli di chi il foraging lo pratica da tutta la vita”.
Mi fa l’esempio di Matteo della Cascina Burattana, che lo ha messo in contatto con una coppia di coltivatori officinali della Valsassina: loro gli hanno insegnato ad amare e coccolare la terra con riti quasi magici ed esoterici (la biodinamica è anche questo), motivo per cui si è trovato a seppellire corni di bue con letame in occasione di San Giovanni.
Quanto è corta la filiera Rubino
La condivisione dei saperi, l’appoggio incondizionato, la fiducia, la passione per un progetto ampio: ecco gli elementi che hanno determinato la filiera corta di Amaro Rubino Bio. Erbe vicine al luogo di distillazione, il miele locale dell’apicoltura Frattini, lo stile estetico scelto in famiglia con la compagna Oriana, gli amici più cari che senza se e senza ma hanno accolto Amaro Rubino Bio sul nascere, gli amici ristoratori come Nicola e Gianni che han creduto da subito nel liquore a prescindere dall’affetto per Rubino. Il vero progetto, infatti, non è tanto la bottiglia chiusa e venduta bensì “ridare un’identità forte al distretto di Varese e Provincia, che sugli spiriti ha avuto e sempre avrà tanto da raccontare”.
*Un giudizio personale
Eccomi con un giudizio puramente personale. Ho impiegato un po’ per apprezzare pienamente il sapore di Amaro Rubino Bio: mi piacciono gli amari molto amari e, questo, tende alla dolcezza soprattutto se bevuto a temperatura ambiente. Si sente infatti immediatamente il miele, seguito da una scia quasi balsamica che ricorda la resina naturale. Da freddo, invece, la percezione si ribalta ed emerge anche l’amarotico tenace di genziana e tarassaco. L’ho anche assaggiato nei dolci (in una torta meringata al limone) e nei “cioccorubini” ovvero cioccolatini fondenti ripieni firmati Rubino (nello shop). Funziona.