Alfredo Sannibale, l’ultimo bottaio dei Castelli Romani

Il presente e il futuro della botte castellana coincidono con la storia di Alfredo Sannibale e della sua bottega ad Albano Laziale: ascesa, declino e ritorno della figura del bottaio ai Castelli Romani.

Alfredo Sannibale, l’ultimo bottaio dei Castelli Romani

I racconti del vino da sempre si nutrono bulimicamente della parola ‘tradizione’, il più delle volte a sproposito, chiamandola a difesa della sacra bevanda da fantomatiche minacce. Eppure tutte le belle parole non hanno impedito che nel territorio dei Castelli Romani, che con il vino ha prosperato e prospera tuttora, rimanesse un solo, ultimo bottaio in grado di lavorare il castagno, l’albero simbolo della zona. Questo bottaio si chiama Alfredo Sannibale, è del 1946 e la sua bottega è ad Albano Laziale.

L’egemonia del castagno nei Castelli Romani

ariccia

Un resistente che ho avuto modo di conoscere questa primavera durante Vinalia Priora a Frascati, in occasione di un incontro curato da Ilaria Giardini, assieme alla quale Alfredo Sannibale ha ricostruito secoli di storia enologica dei Castelli Romani, condendo tutto con quasi 70 anni di aneddoti professionali. Tutto è partito dal deuteragonista della storia: il castagno, di cui i Castelli Romani sono allegramente tappezzati. Ora, sapendo che che la natura non parteggia per le monocolture, come si spiega quest’egemonia?

La spinta favorevole ci fu nel XVII secolo, laddove le disposizioni delle “Constitutiones” emanate dallo Stato Pontificio liberavano tutti i proprietari di terreni con piante da frutto dagli usi civici del pascolo e del legnatico. Poiché i castagni erano considerati alberi da frutto, i proprietari furono ben lieti di convertire i loro boschi in castagneti (e le pecore che andassero a pascolare altrove!). Metteteci anche le richieste sempre crescenti del mercato romano ed ecco spiegata la peculiare flora arboricola castellana: le castagne potevano essere consumate fresche o lavorate per ottenerne farina da utilizzare in tempi successivi, mentre la rapida crescita del castagno consentiva la raccolta di molto legno in un tempo relativamente ridotto. Legno che veniva poi utilizzato per la realizzazione di mobili come di tettoie, di travi di sostegno come di tutori per le viti; e, nel nostro caso specifico, di botti e di tutto ciò che era connesso all’arte enologica (tini, bigonci, mastelli ecc.).

Storia di Alfredo e della botte castellana

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È naturale che, parallelamente alla diffusione del castagno, prosperassero i numerosi artigiani che lo lavoravano e che, ancora fino agli anni ’60, erano diffusissimi in un territorio che ha nel vino una delle sue colonne portanti. Il nonno di Alfredo era uno di questi artigiani, che nel 1860 aprì la bottega dove tuttora si trova: Piazza Pia N. 13, Albano Laziale (RM). I racconti di Alfredo partono dal rustico nonno, morto quando lui era ancora bambino, e arrivano al padre, che lo porta con sé a bottega già a 10 anni a imparare il mestiere.

E negli anni Alfredo ha appreso l’età ideale che deve avere un castagno per dare doghe di qualità (alberi di 16/18 anni di età, che Alfredo ancora oggi va a selezionare personalmente), così come la zona del fusto da cui è più vantaggioso trarre doghe (più vicino al bordo, dove il legno è meno rigido rispetto al centro), la piegatura a caldo delle doghe, il periodo di stagionatura di un paio di anni, fino all’assemblaggio delle botti; in questa fase il bottaio smette i panni del falegname per vestire quelli del fabbro e colpire, secondo il proverbiale adagio, cerchio e botte, fino a realizzare la tipica botte castellana, tra i 1000 e i 1100 litri.

Finita la botte mica la si consegna e tanti saluti: il tannino, di cui il castagno è ricco, viene ammansito attraverso un bagno di calce. Si ultima il tutto con la tostatura e la botte di castagno è pronta per la cantina, dove accoglierà i vini che al suo interno matureranno senza ricevere in dono aromi aggiuntivi, al contrario del rovere che ha nella cessione della nota di vaniglia al vino il suo marchio di fabbrica. E i sei vini assaggiati ho assaggiato a Vinalia Priora testimoniano come l’uso del castagno sia auspicabile, con ampio beneficio soprattutto per i vini bianchi.

Perché i Castelli Romani non hanno i più bottai

Sannibale ha parlato di come l’attività di famiglia fosse fortemente connessa con i vignaioli del posto, fornendo loro non solo botti ma anche mastelli, tini e tutto quanto si potesse realizzare con il legno. L’aumento della domanda di vino della piazza romana negli anni del boom economico poteva far pensare ad un radioso futuro per i bottai. Esemplare il caso della nevicata del 1956, che condusse ad una vendemmia mostruosa e che comportò un aumento lavorativo della bottega ancora del papà di Alfredo senza precedenti: Alfredo ricordò sorridendo che si realizzarono botti con parti non proprio nobili del castagno per far fronte alla richiesta.

Ma l’ottimismo degli artigiani doveva scemare a causa della parallela evoluzione tecnologica, che aveva portato sul mercato vasi vinari economici, virtualmente eterni e che, al contrario delle botti, necessitavano di poca manutenzione (cemento, acciaio e vetroresina). E col tempo i vignaioli castellani, mai avvistati nelle classifiche di Forbes, optarono per la soluzione meno dispendiosa, condannando la figura del bottaio ad un inevitabile oblio.

Il ripescaggio dei bottai, in fila da Alfredo Sannibale

Fortuna vuole che negli ultimi decenni la diminuzione del consumo di vino e la richiesta del consumatore di maggior qualità abbiano portato alcuni vignaioli di zona a recuperare alcuni metodi enologici tradizionali. Questi vignaioli si sono dunque presentati in bottega da Alfredo (lui li chiama “questi personaggi”) a richiedere le loro brave botti. Botti che, con il passaparola, hanno anche valicato le vette del Vulcano Laziale finendo nelle Marche, sulll’Etna e perfino in Australia. La botte finita nelle Marche va raccontata, perché non è da 1000 litri, né da 1100: è a ‘interno di Doblò’. Succede che Massimo Palmieri di Tenuta San Marcello va da Alfredo e gli comissiona una botte, con la seguente clausola: “per portarmela a casa ho solo un Fiat Doblò, e questa botte lì dentro dovrà entrare”. Alfredo prende metro e compasso, ci lavora e gli realizza una botte da poco meno di 1000 hl, a forma di ‘interno di Doblò’.

Qui il lettore può essere indotto a esultare, “evviva, ci sono prospettive per il futuro dai, la professione è salva”. E invece, sfortuna vuole che Alfredo non abbia eredi professionali a cui lasciare ferri e bottega. È un grande peccato, ma è una conseguenza del mercato: il lavoro è duro e complesso, il guadagno incerto e la richiesta scarsa per poterci economicamente contare a lungo termine; il mercato purtroppo non si cura di lasciare un po’ di spazio alla tradizione. Alfredo è stato anche molto onesto nel dire che oggi nessuno, pure che fosse in possesso delle capacità necessarie, potrebbe permettersi di partire con questo mestiere da zero, fosse anche solo per i numerosi locali di cui un bottaio ha bisogno (locale di stoccaggio del legname, spazio per il taglio dei tronchi, locale di stagionatura, locale di assemblaggio delle botti, magazzino dei prodotti finiti). Le storie sui mestieri dal sapore antico condiscono bene qualsiasi racconto, ma gli artigiani devono pur trarre un profitto dalla loro arte per campare.

Così, alla fine di questo racconto rimane in bocca un sapore un po’ amaro. È estremamente sciocco condannare il progresso, e certo non lo faremo qui. E però non si può evitare di provare un granello di malinconia pensando alla sparizione di professioni che esaltano così tanto la creatività dell’uomo; pensando che, dopo Alfredo, nessuno più farà botti di castagno sui Castelli Romani. Sì, per favore, ci sia concessa un po’ di malinconia.

Fonte: Immagine di copertina: Valerio Ciaccia - Visit Castelli Romani
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